10 febbraio 2007

In ricuart dai muarts tes foibis

Ta cheste zornade si ricuardin i muarts tes foibis.
Jo no cognòs tant ben chê storie e mi limiti a ricuardâ inmò une volte i muarts.
Foibis, gulags, cjamps di concentrament, docis-gas, fors crematoris... indipendetementri dal colôr politic che al à fat nassi chescj orôrs dal secul curt, i politics di vuê, sedi di drete sedi di çampe, a àn il dovê morâl e la onestât inteletuâl di fâ dut il pussibil par informâ i citadins de assurditât di chês azion. Par no dismenteâ e par no ripeti. Ma o cjapi at che masse voltis, no si ricuardin i muarts, ma si à voie dome di dâsi la colpe l'un cul altri su cui che al à fat cheste o chê altre porcarie.
I muarts a mertin rispiet.

10 commenti:

tuesin ha detto...

l'uomo per l'uomo è l'essere supremo
(leonardo da vinci)
masse voltes in nòm di une Idee o di un Dio e vin copàt l'om.

Christian Romanini ha detto...

Mandi Tuesin
o soi dacuardi cun te

Christian Romanini ha detto...

Cheste le ai lete sul MV di vuê

SABATO, 10 FEBBRAIO 2007

Pagina 12 - Cultura e spettacoli

Il dramma delle foibe in una terra che ha subito i crimini nazifascisti e quelli titini

Alla base di tutto ci furono odi etnici e soprattutto politici

Concetto Marchesi parte determinante per assegnarle la laurea ad honorem

Guai a dimenticare che non ci sono dittature buone e dittature cattive

La tragedia dell’Istria rivive nella storia di Norma Cossetto

Libro di Frediano Sessi su vita e morte di una ragazza

di FRANCESCO MANNONI
Norma Cossetto, laureanda in lettere e filosofia all’università di Padova, era una radiosa ragazza di 24 anni di Santa Domenica di Visinada quando il 26 settembre 1943 fu prelevata dai partigiani di Tito e condotta nell’ex caserma dei carabinieri di Visignano. Il giorno prima i partigiani avevano fatto irruzione nella sua casa sparando e spaventando tutti i familiari, il padre in primis, podestà del paese e per questo nell’occhio del ciclone. I partigiani la derisero pesantemente e le chiesero di aggregarsi a loro. Il suo rifiuto li inasprì e la rinchiusero nella caserma di Parenzo assieme ad altri conoscenti e amici che sarebbero finiti nelle foibe. Dopo qualche giorno, fu trasferita nella scuola di Antignana, vicino a Pola, legata a un tavolo, torturata e violentata da una ventina di partigiani, imbestialiti dalla sua fermezza d’animo. L’assassinio della giovane studentessa che girava i paesi dell’Istria in bicicletta cercando materiale per la sua tesi di laurea, si compì tra gli schiamazzi di uomini insensibili alle sue suppliche e ai suoi lamenti. Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre, ancora viva, la gettarono nella foiba di Villa Surani su un altro mucchio di salme, nuda e con le braccia legate con il filo di ferro. Una deposizione del tempo recita che il suo corpo recuperato giorni dopo, «aveva entrambi i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate». Norma Cossetto è una delle tante vittime (circa 30 mila secondo alcune stime, 10.137 secondo un’accurata indagine del 1989 del Centro studi adriatici) dell’odio etnico e di classe che percorse l’Istria dopo l’8 settembre e portò a tragici eccidi.
Frediano Sessi, autore di numerosi saggi e romanzi nonché curatore dell’edizione italiana definitiva del Diario di Anne Frank, in un libro inchiesta che è anche un grande affresco sulla tragedia delle foibe, ricostruisce la vicenda della sfortunata Norma Cossetto e delle Foibe rosse (Marsilio, 160 pagine, 12,00 euro). Il saggio arriva in libreria in concomitanza con la Giornata del Ricordo fissata ogni anno al 10 febbraio.
Ho incontrato lo scrittore e gli ho chiesto in quale contesto storico è avvenuto l’assassinio di Norma Cossetto?
«Nel vuoto di potere seguito alla fine della dittatura fascista in Istria dopo l’8 settembre e durato quaranta giorni prima che i tedeschi riprendessero il possesso della penisola – dice – i partigiani titini preparati alla resistenza, tentarono di prendere in mano la penisola con l’obiettivo strategico di renderla una terra jugoslava. All’interno della penisola c’era un conflitto di crogioli politici e etnici e anche altre questioni aperte, e la potenza delle armate di Tito si fece sentire parecchio in quei quaranta giorni».
– Un’operazione di pulizia etnica attuata dagli uomini di Tito, come tante altre che hanno insanguinato la storia del ventesimo secolo?
«Su questo punto ho delle riserve: è una pulizia etnica di cui ha parlato senza una documentazione la storiografia di destra e, in parte, anche quella di sinistra. Si tratta, secondo me, di una presa di potere nazionale, di una colonizzazione comunista dell’Istria, alla quale vengono chiamati a rispondere anche gli italiani comunisti. Nei quaranta giorni furono uccisi anche dei comunisti che erano contrari alla nazionalizzazione jugoslava del territorio, e dei membri antifascisti dei Comitati di liberazione nazionale».
– Non si trattò quindi solo di una cacciata degli italiani?
«Erano cacciati gli italiani, ma soprattutto coloro che – quindi anche gli sloveni e i croati – erano contro la slavizzazione della penisola».
– L’accanimento contro Norma Cossetto è dovuto anche al fatto che era figlia di un podestà fascista ed era una simpatizzante di destra?
«Questo è il movente principale oltre al fatto che lei si rifiutò di collaborare. Venne arrestata il 26 settembre quando i tedeschi già cominciavano a riprendere il possesso del territorio e i partigiani titini si sentivano pressati dalle forze nemiche. Perciò si spostarono, e da Parenzo andarono ad Antignano portando con loro i prigionieri. All’ultimo momento, i prigionieri furono giustiziati perché non sapevano dove metterli. Norma Cossetto, prima di essere uccisa fu violentata».
– Quali sono le testimonianze in merito alle violenze subite dalla ragazza?
«Le testimonianze vengono da diverse fonti orali e dalla magistratura, e il libro è molto circostanziato sulla circostanza dello stupro. La magistratura fu interpellata perché al momento dell’assegnazione alla memoria di Norma Cossetto di una laurea ad honorem, la facoltà dell’Università di Padova chiese un atto notorio in cui fosse attestata la verità di quello che veniva detto anche dai partigiani padovani e veneziani nel ’45 sulla fine della ragazza. Concetto Marchesi, grande storico della letteratura classica scomparso cinquant’anni fa, docente a Padova per trent’anni, chiese loro se era vero che tra i morti dell’Università c’era anche Norma Cossetto. I partigiani gli confermarono che era stata violentata e uccisa dai partigiani di Tito. La magistratura fece un’indagine per arrivare all’atto notorio, e anche questi accertamenti confermarono la violenza. Le testimonianze parlano di diciassette-venti bruti che l’avrebbero seviziata».
– Perché l’assegnazione alla Cossetto di una laurea ad honorem, e quale fu in questa iniziativa il ruolo di Concetto Marchesi, noto esponente politico e militante nel Partito comunista sin dal 1921?
«Tutta la documentazione della pratica dell’assegnazione della laurea ad honorem, fu approntata nei primi mesi del ’45 con questa motivazione: “Uccisa dai partigiani di Tito per difendere l’italianità, e violentata”. La pratica porta la firma del rettore e sappiamo che queste lauree sono spesso date dal senato accademico, per cui la proposta venne senz’altro da Concetto Marchesi. Il ruolo che lui giocò è difficile da attestare, se non ipotizzandolo. Non è stato mai smentito che lui fosse il maestro di Norma Cossetto, mentre non lo è mai stato, perché colui che seguiva la tesi di laurea della ragazza non era Concetto Marchesi, ma un certo Lorenzi, un geografo e un geologo. C’è un uso politico di questa storia, forse perché la tesi della Cossetto era intitolata L’Istria Rossa».
- In che modo è stata strumentalizzata?
«La laurea ad honorem le venne attribuita nel 1949 quando ormai tra il partito comunista italiano e quello jugoslavo c’era un rapporto fraterno, non più di conflitto come lo era nel ’45-46. A quel punto venne cancellata dalla motivazione “morta per mano dei partigiani di Tito”, e il nome di Norma Cossetto nell’iscrizione su una lapide fu associato agli altri studenti padovani uccisi per mano dei nazisti mentre combattevano per la difesa della patria».
– Un imbroglio?
«Non so se si sia trattato di un imbroglio, ma che cosa c’entri Concetto Marchesi non è accertato da documenti precisi e si possono fare solo delle ipotesi. Se la proposta di dare la laurea ad honorem a Norma Cossetto è venuta da lui, si può pensare che abbia seguito tutto il percorso anche con il rettore e l’Università di cui in quel periodo era una delle persone più autorevoli. Un padre, non solo costituente, che aveva un peso grosso nell’Università di Padova, uno dei pochi atenei medaglia d’oro della Resistenza. E ad attivare la Resistenza a Padova fu lui. Non era un professore qualunque».
– Possiamo pensare che la laurea fosse una sorta di riabilitazione, così come il suo libro può essere interpretato, oltre che quale interessante testimonianza storica, come una sorta di risarcimento morale per Norma Cossetto?
«Non so quali fossero le intenzioni di chi pensò alla laurea ad honorem, ma il mio saggio effettivamente tenta un risarcimento al di sopra delle parti, nel senso che nel tempo questa ragazza è stata strattonata come eroina di destra e di sinistra, mentre la sua memoria è stata negata nel tempo. Recentemente le è stata assegnata una medaglia d’oro da Cossiga, ma anche questa richiesta è venuta da una precisa parte politica: Alleanza Nazionale. Io tento un affresco attribuendo le colpe a chi vanno attribuite perché lei, in fondo, fu vittima innocente delle idee che professava. Morì al posto del padre che poi venne trucidato comunque, e perché non accettò di collaborare con dei criminali violenti, quali erano in quella zona i partigiani di Tito che uccisero anche molti comunisti italiani che non erano d’accordo con loro».
– Ma i partigiani di Tito, erano davvero così ideologicamente feroci come è stato raccontato?
«Si è parlato del furore delle armate di Tito che utilizzarono anche gli arrabbiati contadini slavi e croati e l’odio della popolazione civile contro gli armati italiani. Questo odio, però, non era contro i soldati italiani, ma contro le Brigate Nere, perché quando i soldati cominciarono a fuggire dalla Jugoslavia e ad abbandonare le armi e le divise, furono aiutati dai contadini slavi a raggiungere Trieste. Non c’è stata una lotta fra etnie, ma un confronto politico al quale rispose anche un moto di solidarietà che la dice lunga sugli sconvolgimenti in atto».
– Alla luce anche dell’assassinio di Norma Cossetto, quanto è importante la giornata del ricordo delle foibe?
«È molto importante perché, al di là delle polemiche che ancora si riscontrano sul numero delle vittime e degli infoibati, la ricorrenza serve anche a non dimenticare che non c’è una dittatura buona e una cattiva. Quando si promette una società giusta creando i nemici di questa società – parlo del comunismo come del nazismo – credo sia importante che la memoria si abitui a riflettere su un preciso aspetto della questione: la storia va vista solo dalla parte delle vittime, e i processi storici vanno giudicati per l’effetto che hanno sulla popolazione civile e sugli stati».

Christian Romanini ha detto...

Avonde obietive e la ultime rispueste mi è plasude une vore

Christian Romanini ha detto...

Achì invezit us met l'intervent dal president de republiche Giorgio Napolitano

Christian Romanini ha detto...

I coments dai politics a lis peraulis dal president de republiche Napolitano:

Foibe, lodi al discorso Napolitano
Elogi da Gasparri,Cesa,Pecoraro Scanio

"Quello del presidente Napolitano è un gesto di gran coraggio". Così Maurizio Gasparri (An) ha commentato le parole del Capo dello Stato, pronunciate al Quirinale durante il suo discorso per il "Giorno del Ricordo" sulle foibe. Anche il segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa, ha lodato Napolitano "Sulle foibe il capo dello Stato ha il coraggio dire le cose come stanno". ''Ho molto apprezzato il suo intervento", ha dichiarato Pecoraro Scanio (gjavât fûr dal Corriere 10/02/2007

Christian Romanini ha detto...

Simpri sul MV o ai cjatât chest intervent di Fulvio Salimbeni:

SABATO, 10 FEBBRAIO 2007

Pagina 1 - Prima Pagina

RICERCA E NON RITI
GLI ORRORI E IL RICORDO
di FULVIO SALIMBENI

Se la bontà di un’iniziativa si misura dagli esiti, bisogna ammettere che l’istituzione per legge del Giorno della Memoria (27 gennaio) e della Giornata del Ricordo (10 febbraio) ha mancato l’obiettivo prefissato. Da un lato, infatti, tali ricorrenze troppo di frequente sono diventate occasioni di ridondante e vacua verbosità e di manipolazione ideologica.
Ciò accade da parte dei diversi schieramenti politici, pronti a usarle gli uni contro gli altri armati. Dall’altro i risultati educativi, visto che erano state ideate in primo luogo per informare i giovani su alcuni degli eventi più tragici del XX secolo, evitandone l’oblio, sono stati insignificanti, se non negativi, poiché gli studenti spesso le hanno percepite solo come un di più di mere nozioni da apprendere, al vaglio degli esami universitari di storia contemporanea molto spesso dimostrando di non saperne tuttora quasi nulla o in termini talmente banali e riduttivi, che meglio sarebbe stato che nessuno gliene avesse parlato. Il difetto, peraltro, sta proprio, oltre che nei modi, rituali, della celebrazione, nella denominazione prescelta, fuorviante e indicativa d’una scarsa coscienza critica, e nella stessa idea di fondo, astorica, donde gli esiti discutibili, contro ogni pur lodevole intenzione iniziale.
Semplicemente rammentare, infatti, non aiuta a intendere: suggerisce soltanto sdegno e commozione per le efferatezze compiute contro determinati gruppi umani, senza favorire un’autentica comprensione, che possa davvero in qualche modo impedire il ripetersi degli orrori del passato. Finché si parla di follia e di crudeltà senza spiegarne le premesse e le scaturigini, non si fa procedere d’un passo la buona causa per la quale si dichiara d’impegnarsi e lottare. È solo storicizzando gli avvenimenti proposti all’attenzione dell’opinione pubblica, e in particolare dei giovani, che si potrà conseguire quanto si dichiara di volere.
Particolarmente discutibile, poi, almeno a nostro avviso, è il processo di parcellizzazione della memoria e della storia, per cui un giorno si celebra la tragedia della Shoah e un altro quello delle foibe e dell’esodo dalla Venezia Giulia, da Fiume e dalla Dalmazia, senza dimenticare che sono circolate, a suo tempo, anche proposte d’istituire un’altra giornata ufficiale a carattere storico, quella del 9 novembre, per festeggiare la caduta del muro di Berlino (1989) e l’inizio della fine dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale; ora, inoltre, le stesse comunità armene fuori dall’Anatolia hanno iniziato a battersi per il riconoscimento del loro genocidio o massacro – e anche qui è in atto un’accesa disputa su quale dei due termini sia più corretto impiegare, dato che il prevalere dell’uno o dell’altro implica un diverso giudizio sulla vicenda, sulla sua predeterminazione o meno e sulla sua dimensione quantitativa – con la scelta d’una data ad hoc in cui commemorarlo.
A questo riguardo un’altra riflessione s’impone, relativa alle rivendicazioni d’unicità e d’esclusività dei propri lutti e drammi, che non troverebbero paragone nella storia dell’umanità, sicché ogni comunità perseguitata, oltre a quella ebraica, rivendica la propria vicenda come incomparabile con le altre e assoluta, ponendola fuori da qualsiasi corretta prospettiva storiografica, per quanto evidenti segni di ripensamento al riguardo s’incomincino a notare seguendo l’ampio e articolato dibattito relativo alla legge Mastella in corso nella lista di discussione della Società italiana per lo studio della storia contemporanea; tutti questi, invece, in realtà sono aspetti particolari e diversi d’una medesima e comune tragica vicenda, che è quella che a ragione, e in sostanziale concordia da parte degli studiosi dei più diversi orientamenti, ha fatto definire il XX come il secolo criminale per eccellenza, aggettivo che compare nel titolo d’un volume di qualche anno fa di Yves Ternon dedicato all’argomento (Corbaccio), o del male, come piuttosto ha preferito definirlo Alain Besançon in un affascinante saggio su nazismo, comunismo e Shoah (Ideazione).
Molto bene questa sostanziale unità di fondo dei drammi del Novecento è stata colta da Guido Crainz in Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa (Donzelli), un libretto che in poche decine di pagine coglie con lucidità e senza retorica il carattere comune degli eventi che in tempi diversi e in luoghi lontani tra loro hanno sanguinosamente connotato la storia contemporanea del continente. Nella medesima direzione, d’altronde, si muove un progetto comune di giovani ebrei francesi e rifugiati ruandesi, incentrato su un’analisi comparata dei rispettivi genocidi, di cui, riprendendola da Afrique Magazine, ha dato notizia Internazionale (n. 675, 2007).
Lo scatenarsi dei nazionalismi, l’affermarsi dell’idea di Stato nazionale anche in una realtà complessa e tutt’altro che omogenea come quella danubiana e balcanica, per secoli dominio di imperi connotati dal pluralismo etnico, confessionale e culturale, come già cinquant’anni fa ricordava Arnold J. Toynbee nel tuttora insuperato Il mondo e l’Occidente (Sellerio), l’imporsi di ideologie razziali e classiste totalitarie, miranti a cancellare in un modo o nell’altro il diverso e l’altro da sé, o tale ritenuto – quello che Domenico Fisichella ha definito «il nemico oggettivo», indipendentemente dalle sue responsabilità reali o presunte, per il Potere – per costruire la società perfetta, adottando il terrore per stroncare ogni opposizione e riplasmare l’esistente secondo un progetto utopico di rigenerazione e rinnovamento: questi i fattori che, variamente intrecciati, hanno portato alla Shoah, alle foibe e all’esodo come a tutte le pulizie etniche, deportazioni e migrazioni forzate di popoli in Europa e nel resto del mondo. Un risultato, questo, dovuto anche a quel processo di disumanizzazione e trionfo della tecnica non come mezzo bensì quale fine già messo in luce da Heidegger e che affonda le radici nella seconda rivoluzione industriale – sviluppatasi fra Otto e Novecento – che ha depersonalizzato gli esseri umani, riducendoli, come, con la consueta icasticità, ebbe a osservare Karl Kraus dopo la Grande Guerra, a meri numeri di matricola, privi d’identità, molecole d’una massa amorfa.
Se si vuole, pertanto, far sì che certi orrori non si ripetano – benché la lezione degli eventi europei tra 1939 e 1945 non sia stata sufficiente per impedire l’autogenocidio cambogiano dei Khmer rossi e le carneficine africane dei Laghi Australi – vanno ripensati i modi delle celebrazioni, che troppo spesso sembrano attuate per orientare l’attenzione generale sul passato, distraendola da un parimenti oscuro presente, segnato dalla catastrofe del Darfur, dalla violazione delle più elementari regole del diritto internazionale da parte dell’unica superpotenza, dall’emergere e imporsi di fondamentalismi i più vari, o dalla politica israeliana nei Territori Occupati. Nel momento in cui i governi cercano d’imporre una storia politicamente corretta, sanzionando penalmente chi non s’adegui alla Verità, in questo modo facendo il gioco dei suoi contestatori (che si presentano quali martiri della libertà di ricerca), ma per fortuna suscitando una quasi unanime reazione degli storici d’ogni schieramento contro una simile aberrazione, va ricordato che un grande antichista ebreo francese, Pierre Vidal-Naquet, che aveva perso la famiglia nella persecuzione razziale, s’oppose sempre con determinazione a qualsiasi legislazione repressiva in materia, rivendicando il diritto-dovere degli studiosi d’impegnarsi per confutare con gli strumenti dell’indagine le tesi negazioniste per un verso e per comunicare in modo più efficace i dati storici effettuali agli studenti e ai cittadini, evidentemente mal informati al riguardo, dal momento che potevano in qualche misura accettare le falsità propagate da Faurisson e Rassinier, per un altro.
Meno celebrazioni allora, accordandosi magari su una data unica per riflettere sul tragico Novecento – per esempio il 6 agosto, anniversario di Hiroshima, che portò al culmine il trionfo della tecnica sull’umanità, anche se tale ricorrenza, cadendo nel pieno dell’estate, quando le scuole sono chiuse e la gente è in ferie, rischierebbe di passare inosservata – e facendo sì che il tutto non si risolva in un solo giorno all’anno, ripensando radicalmente l’insegnamento e la divulgazione della storia contemporanea, così da far comprendere le molteplici e diverse componenti ideologiche, sociali, politiche, culturali che portarono agli eventi dei quali si vuol fare memoria condivisa, laddove essa è individuale per eccellenza e non può essere ricomposta e unificata, essendo, invece, compito dell’indagine storica, liberata da ogni condizionamento partitico e giudiziario, offrirne una lettura unitaria e condivisibile.

Christian Romanini ha detto...

Cun di plui o ai cjatât ancje chest


Rapporti tra Italiani e sloveni dal 1880al 1956 Relazione della commissione storico - culturale italo - slovena



Periodo 1880 - 1918

Il rapporto italo-sloveno nella regione adriatica ha la sua origine nella fase di crisi successiva al crollo dell'impero romano, quando da una parte sul tronco della romanità si sviluppa l'italianità e dall'altra si verifica l'insediamento della popolazione slovena.
Di questo secolare rapporto di vicinanza e di convivenza s'intende qui trattare il periodo, che si apre intorno al 1880, segnato dal sorgere di un rapporto conflittuale e di contrasto nazionale italo-sloveno. Questo conflitto si sviluppa all'interno di una realtà politico-statale, la monarchia asburgica, della quale le diverse zone costituenti il Litorale austriaco erano entrate a far parte attraverso un secolare processo, iniziato nella seconda metà del XIV secolo e conclusosi, con l'Istria veneziana, nel 1797.
La plurinazionale monarchia asburgica nella seconda metà del XIX secolo appare incapace di dare vita a un sistema politico che rispecchiasse compiutamente nelle strutture statali la multinazionalità della società, ed è scossa pertanto da una questione delle nazionalità che essa non sarà in grado di risolvere. All'interno di questa Nationalitätenfrage asburgica si colloca il contrasto italo-sloveno, sul quale si riflettono anche i processi di modernizzazione e di trasformazione economica, che toccano tutta l'Europa centrale e la stessa area adriatica. Il rapporto italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo un modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand) politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che tentano invece di modificare o di ribaltare la situazione esistente. Il problema è reso ancora più complesso dall'indubbio richiamo culturale ed emotivo, anche se non sempre politico, che l'avvenuta proclamazione del Regno d'Italia e forse più ancora il passaggio a questo stato dei vicini territori del Veneto e del Friuli esercitano sulle popolazioni italiane d'Austria. Allo sguardo che gli italiani rivolgono oltre le frontiere della monarchia si contrappone la volontà slovena di rompere i confini politico-amministrativi, che in Austria li dividono tra diversi Kronländer (oltre ai tre del Litorale, la Carniola, la Carinzia e la Stiria), limitandone i rapporti reciproci e la collaborazione politico-nazionale.
L'unione del Veneto al Regno d'Italia aveva determinato anche la nascita di una questione che tocca direttamente le relazioni italo-slovene: con il 1866 la Valle del Natisone, la Slavia veneta, entra a fare parte dello stato italiano, la cui politica verso la popolazione slovena esprime immediatamente la differenza tra un vecchio stato regionale, la Repubblica di Venezia, e il nuovo stato nazionale. Il Regno d'Italia segue una linea di cancellazione del particolarismo linguistico, che ha le sue radici in una volontà uniformizzatrice che non tiene in alcun conto neppure l'atteggiamento lealistico della popolazione che è oggetto di queste misure.

Intorno all'anno 1880 gli sloveni si erano ormai dotati di basi sufficientemente solide per un'autonoma vita politica ed economica in tutte le unità politico-amministrative austriache nelle quali essi vivevano. Anche nel Litorale austriaco il movimento politico degli sloveni del Goriziano, del Triestino e dell'Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel loro complesso.
Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei decenni successivi, l'assimilazione della popolazione slovena (e anche croata) trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a Trieste. La più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono alla base di questo fenomeno che allarma le élites italiane, dà vita a una politica spesso angusta di difesa nazionale, che contrassegnerà la storia della regione sino al 1915, e contribuisce a rendere più teso il rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene e italiane a una diversa delimitazione dei rispettivi territori nazionali.

In tutte e tre le componenti territoriali del Litorale austriaco (Trieste, Contea di Gorizia e di Gradisca, Istria) sloveni e italiani convivevano gli uni accanto agli altri. Nel Goriziano la delimitazione nazionale appariva più netta, con una separazione longitudinale Occidente-Oriente, etnicamente mista era solo la città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era però crescente, tanto da far ritenere ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915 che il raggiungimento di una maggioranza slovena nella città isontina fosse ormai imminente.
Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo circondario era sloveno. Anche in questo caso la popolazione slovena appariva in ascesa. In Istria gli sloveni erano presenti nelle zone settentrionali, per la precisione nel circondario delle cittadine costiere a prevalenza italiana. In tutta l'Istria il movimento politico-nazionale degli sloveni si saldava con quello croato, rendendo talora difficile una trattazione distinta delle due componenti della realtà slavo-meridionale della penisola. Il carattere peculiare degli insediamenti italiano e sloveno nel Litorale è rappresentato dalla fisionomia prevalentemente urbana di quello italiano ed eminentemente rurale di quello sloveno. Questa distinzione non va però assolutizzata, non devono essere dimenticati gli insediamenti rurali italiani in Istria e in quella parte del Goriziano, detta allora Friuli Orientale, e quelli urbani sloveni oltre a tutto in espansione, come si è già detto a Trieste e a Gorizia.
Ma anche se una separazione troppo marcata tra realtà urbana e rurale va evitata, il rapporto città-campagna rappresenta effettivamente un momento fondamentale della lotta politica nel Litorale, determinando anche un intersecarsi di motivi nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno, che ne renderà più difficile una composizione. Il nodo del rapporto tra città e campagna sta anche alla base di un dibattito politico e storiografico tuttora in corso sull'autentica fisionomia nazionale della regione Giulia.
Da parte slovena si afferma l'appartenenza della città alla campagna, sia perché nelle aree rurali si sarebbe conservata intatta, non alterata dal sovrapporsi di processi culturali e sociali, l'identità originale di un territorio, sia perché il volto nazionale delle città sarebbe la conseguenza di processi di assimilazione che hanno impoverito la nazione slovena. La perdita dell'identità nazionale attraverso l'assimilazione è quindi vissuta dagli sloveni, ancora decenni dopo, come un'esperienza dolorosa e drammatica, che non deve ripetersi. Da parte italiana si replica con il richiamo al principio dell'appartenenza nazionale come frutto di una scelta culturale e morale liberamente compiuta e non di un'origine etnico-linguistica.
Tornando al nesso città-campagna, secondo l'interpretazione italiana è invece la tradizione culturale e civile delle città che dà la propria impronta alla fisionomia e al volto di un territorio. Da questa differenza di impostazione deriveranno anche i successivi contrasti sul concetto di confine etnico e sul significato degli stessi dati statistici sulla nazionalità delle popolazioni in aree di frontiera, alterati a parere degli sloveni dall'esistenza di polmoni urbani prevalentemente italiani.

Benché la questione nazionale all'interno della monarchia asburgica presenti alcuni denominatori comuni, le condizioni conflittuali nelle singole zone e quindi anche nel Litorale presentano peculiarità specifiche. La rapida crescita del movimento politico ed economico sloveno e l'espansione demografica degli sloveni nelle città sono ricondotte da parte italiana anche all'azione dell'autorità governativa che avrebbe attuato una politica di sostegno all'elemento sloveno (ritenuto indubbiamente più leale di quello italiano, come risulta da dichiarazioni esplicite di autorità austriache), per contrastare l'autonomismo e il nazionalismo italiano. L'attribuzione di una fisionomia esclusivamente artificiale all'espansione slovena non tiene però conto di quella che è la naturale forza di attrazione esercitata da centri urbani verso le aree rurali e nel caso specifico a quella esercitata da una grande città in crescita dinamica come Trieste verso il suo circondario. Questo rapporto risponde a leggi economiche, come hanno sottolineato Angelo Vivante e Scipio Slataper, e non solo a un disegno politico.
Anche alla Chiesa cattolica, come all'autorità governativa, gli ambienti nazionali e liberali italiani rimproverano frequentemente di svolgere una funzione filoslovena, affermazione questa suffragata dall'attiva partecipazione di sacerdoti al movimento politico sloveno.
Su un piano politico-amministrativo l'asprezza della questione nazionale impedisce o rende incompleto l'adeguamento delle istituzioni e dei rapporti linguistici ai principi costituzionali e alle idee liberali. Le modifiche alle leggi elettorali locali si mantengono nell'ambito del sistema censitario: in tal modo la composizione dei consigli dietali e comunali non rispecchia le reali proporzioni numeriche esistenti tra i gruppi nazionali (ad esempio nella Dieta provinciale di Gorizia esisteva una maggioranza italiana, anche se gli sloveni costituivano i 2/3 della popolazione di quel territorio). L'evoluzione delle disposizioni in materia linguistica e lo sviluppo delle strutture scolastiche slovene e croate sono frenati dagli organi politici a maggioranza italiana, che impediscono una piena parificazione tra le lingue parlate nel Litorale, due nella Contea di Gorizia e a Trieste e tre in Istria.
Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale gli sloveni e gli italiani non strinsero legami politici. Costituisce un'eccezione la Dieta goriziana, nella quale si verificarono inconsuete alleanze tra i cattolici sloveni e i liberali italiani. Tali legami indussero in quella stessa Dieta provinciale i liberali sloveni e i cattolici italiani a stringere intese contingenti. I cattolici italiani del Goriziano avevano il proprio punto di forza specie nella campagna friulana, dove agiva il partito popolare friulano, i cui dirigenti furono più tardi tacciati di austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad associazioni cattoliche sloveno-italiane, fallì, né suscitò più tardi legami tra i due popoli il movimento cristiano-sociale. Appare dunque evidente come le ragioni dell'appartenenza nazionale facessero premio su quelle ideologiche. Questa tendenza è ancora più chiara in Istria, dove il partito popolare italiano è più vicino a posizioni nazionali e dove la vita politica è imperniata su una contrapposizione tra un blocco italiano, che tenta di mantenere in vita la prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel sistema scolastico, e un blocco croato-sloveno, che cerca invece di modificare l'equilibrio esistente. In campo liberale e popolare-cattolico i due gruppi nazionali sono rappresentati in tutto il Litorale da partiti «nazionali» distinti e contrapposti. Si instaurarono invece legami più solidi nell'ambito del movimento socialista improntato all'internazionalismo benché nel Litorale austriaco esso si fosse dato un'organizzazione articolata in base a criteri nazionali. Fu proprio l'affermazione di questo principio a contenere l'assimilazione dei lavoratori sloveni, ma vi furono palesi attriti fra i socialisti delle due nazionalità e divergenze di vedute spesso aspre si manifestarono anche successivamente, verso la fine della prima guerra mondiale, nel corso delle discussioni sull'appartenenza statale di Trieste e sulla sua identità nazionale.
Un progetto croato, che contemplava una comune resistenza a una asserita germanizzazione della monarchia asburgica, avrebbe potuto dare vita a un «patto adriatico» tra le nazioni gravitanti sul Litorale, ma esso avrebbe, secondo gli sloveni, attribuito agli italiani aree di influenza così estese da danneggiare gli interessi sloveni.

Il mancato sviluppo di un dialogo e di una cooperazione italo-sloveni incide profondamente sull'atmosfera di Trieste e, sia pure in misura minore, anche di Gorizia e dell'Istria alla vigilia del 1915. Italiani e sloveni guardano prevalentemente alla loro identità nazionale e si rivelano scarsamente capaci di sviluppare un senso di appartenenza comune alla terra nella quale entrambi i gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perseguono l'idea di una Trieste capace di alimentare l'attuazione dei loro programmi economici e sottolineano il ruolo centrale per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lubiana, in ragione della diversa consistenza demografica delle due città.
La loro espansione demografica li portava a ritenere imminente il momento della conquista della maggioranza della popolazione a Gorizia e inevitabile, sia pure in tempi più lunghi, un risultato analogo a Trieste. La maggioranza della popolazione italiana si raccoglie così intorno a una politica di intransigente difesa nazionale, tesa a salvaguardare un'immutabile fisionomia italiana della città. Se gli sloveni guardano un retroterra vicino, gli italiani si rivolgono al più lontano retroterra dei territori interni della monarchia e anche al Regno d'Italia.
In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un nazionalismo radicale ed esasperato per quanto minoritario che è fondato sull'idea di una missione civilizzatrice in senso culturale e nazionale della città e sull'imperativo di un'espansione economica dell'italianità nell'Adriatico. La forza politica più rappresentativa degli italiani di Trieste è però il partito liberale-nazionale, nel quale sopravvive una minoranza legata all'ispirazione mazziniana mentre la maggioranza vede il compito immediato dell'irredentismo nella difesa dell'identità italiana della città e delle sue istituzioni.
In questo clima teso e infuocato vennero alla luce anche idee di personalità del mondo della cultura che si innestarono sul solco segnato dagli autori della rivista «La Favilla» nella fervida atmosfera del 1848. Si trattò del gruppo che si raccolse intorno alla rivista fiorentina «La Voce», resasi promotrice di iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli nonché alla conoscenza e al riconoscimento della realtà plurietnica di Trieste e del suo circondario. A questa rivista collaborarono alcuni giovani triestini, tra i quali Slataper e i fratelli Carlo e Giani Stuparich. In opposizione all'irredentismo politico essi definiscono la loro posizione con il termine di irredentismo culturale e intendono sviluppare la cultura italiana nel confronto e nel dialogo con quelle slavo-meridionali e tedesca. Trieste assume quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra popoli e civiltà diversi; la loro concezione politica sino al 1914 è quindi molto simile a quella del socialismo triestino. Del resto proprio nelle edizioni della «Voce» viene pubblicato il più maturo risultato del pensiero socialista, e cioè il volume di Vivante sull'irredentismo adriatico. Dal versante sloveno non si ebbero riscontri incoraggianti né si registrarono reazioni a questo libro. Gli sloveni apparivano ancora impegnati nella ricerca di una propria identità e incapaci di incamminarsi alla scoperta di altre identità. Rari furono coloro i quali riuscirono a ergersi al di sopra delle barriere nazionalistiche, si vedano ad esempio alcuni giudizi sulla questione della fondazione dell'università a Trieste. Le tensioni erano troppo acute e agli sloveni pareva preferibile e più a portata di mano una soluzione slavo-meridionale della crisi che attanagliava la monarchia austriaca alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale.

Con la prima guerra mondiale il programma dell'irredentismo diventa parte integrante della politica italiana, sia pure nella convinzione che durerà almeno sino alla primavera del 1918 che l'Austria-Ungheria, anche se profondamente ridimensionata sotto il profilo territoriale, sarebbe sopravvissuta al conflitto. Prima ancora dell'entrata in guerra dell'Italia, il diplomatico italiano Carlo Galli nel corso di una missione a Trieste incontrò, per incarico del suo governo, esponenti sloveni. Per la dirigenza slovena si trattò dei primi contatti ufficiali con uno stato straniero. Già con il patto di Londra però il governo italiano adottò un programma di espansione, nel quale accanto alle motivazioni nazionali erano presenti ragioni geografiche e strategiche. Il già diffuso lealismo sloveno nei confronti dello stato austriaco trasse ulteriore alimento dalla prime voci sugli aspetti imperialistici del patto di Londra e sulle soluzioni in esso adottate in merito al confine orientale del Regno d'Italia nonché dall'atteggiamento delle autorità militari italiane nelle prime zone occupate. Un parziale revirement italiano si determinò dopo la sconfitta di Caporetto, dando luogo a una politica di dialogo con le nazionalità soggette d'Austria-Ungheria, che culminò nel congresso di Roma dell'aprile 1918 e in un'intesa con il comitato jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo asburgico sembra ormai contraddittorio di fronte ai processi di disgregazione interna che scuotono lo stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondono l'idea del diritto all'autodeterminazione e quella della solidarietà jugoslava. Nella fase finale della guerra e all'inizio del dopoguerra si palesa con tutta evidenza il contrasto tra un tesi slovena e jugoslava, tendente a un confine «etnico», che affonda le sue radici nella concezione dell'appartenenza della città alla campagna e che sostanzialmente coincide con il confine italo-austriaco del 1866, e una tesi italiana, mirante a un confine geografico e strategico, determinata dal prevalere nella penisola delle correnti più radicali e dalla necessità politico-psicologica di garantire una frontiera sicura alle città e alla costa istriane, prevalentemente italiane, e di offrire all'opinione pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoriali, che compensassero gli enormi sacrifici richiesti al paese durante la guerra.

Periodo 1918 - 1941

L'Italia, vittoriosa nella prima guerra mondiale, concluse così il proprio processo di unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale austriaco ed estranei allo stesso concetto di Venezia Giulia italiana, come era stato elaborato negli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse componenti nazionali residenti nei territori dapprima occupati e poi annessi: gli italiani infatti accolsero con entusiasmo la nuova situazione, mentre per gli sloveni, che si erano impegnati per l'unità nazionale e si erano già alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo, l'inglobamento nello stato italiano comportò un grave trauma. Il nuovo assetto del confine, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915 e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e l'Adriatico, strappò dal ceppo nazionale un quarto del popolo sloveno (327.230 unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schiffrer), ma la crescita del numero degli sloveni presenti in Italia non influì sulla situazione di quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del Regno, ritenuti ormai assimilati e ai quali non venne pertanto riconosciuto alcun diritto nazionale.

L'amministrazione italiana, dapprima militare e poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad affrontare i delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati, dove si riscontravano consistenti insediamenti in ampie zone maggioritari di popolazioni non italiane che aspiravano all'unione con la propria «madrepatria» (nel caso degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che avevano compiuto per lo più la loro acculturazione politica nell'ambito dello stato plurinazionale asburgico. Tale impreparazione, unita al retaggio della guerra appena conclusa in cui gli slavi erano stati considerati come nemici, strumenti privilegiati dell'oppressione austriaca provocò da parte delle autorità italiane comportamenti fortemente contraddittori. Da un lato, nel periodo 1918-20, quando il confine italo-jugoslavo non era ancora definito, le autorità di occupazione, influenzate pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano pesante nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la propria volontà di annessione alla Jugoslavia. Furono così assunti numerosi provvedimenti restrittivi sospensione di amministrazioni locali, scioglimento di consigli nazionali, limitazioni della libertà di associazione, condanne dei tribunali militari, detenzione di militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali che penalizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente slovena. Al tempo stesso le autorità di occupazione favorirono le manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la definizione del nuovo confine un quadro politicamente italiano delle regioni. D'altra parte, i governi liberali italiani, pur all'interno di un disegno generale di nazionalizzazione dei territori annessi, furono generosi di promesse nei confronti della minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell'istruzione scolastica in lingua slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche il progetto sostenuto da esponenti politici giuliani e trentini, e che i governi prefascisti presero in seria considerazione di conservare ai territori annessi forme di autonomia non lontane da quelle già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito un migliore rapporto fra le componenti minoritarie e lo stato. Inoltre, il Parlamento italiano formulò voti in favore di una politica di tutela della minoranza slava.

L'irremovibilità delle delegazioni italiane e jugoslava alla conferenza di Parigi sul problema della definizione del nuovo confine ritardò la stabilizzazione politica dei territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il formarsi del mito della «vittoria mutilata» e l'impresa dannunziana di Fiume, pur non riguardando direttamente l'area abitata da sloveni, accesero ulteriormente gli animi e costituirono il terreno ideale per l'affermarsi precoce del «fascismo di frontiera», che si erse a tutore degli interessi italiani sul confine orientale e coagulò gran parte delle locali forze nazionaliste italiane attorno all'asse dell'antislavismo combinato con l'antibolscevismo. Il movimento socialista vedeva infatti una larga adesione degli sloveni fiduciosi nei suoi principi di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale che contribuirono a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche da ciò in seguito derivò la coniazione da parte fascista del neologismo «slavocomunista» che alimentò ulteriormente l'estremismo nazionalista. Nel luglio del 1920, l'incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene, di Trieste che trasse pretesto dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono vittime sia italiane sia jugoslave non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia come altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all'aggressività fascista, che si giovò di aperte collusioni con l'apparato dello stato, qui ancor più forti che altrove, come conseguenza della diffusa ostilità antislava.
Le «nuove province» d'Italia nascevano così con pesanti contraddizioni tra principio di nazionalità, ragion di stato e politica di potenza, che minavano alla base la possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali diversi.

Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il regno d'Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell'area considerata dagli sloveni come proprio «territorio etnico». Tale esito era dovuto alla favorevole posizione negoziale dell'Italia che usciva dalla Grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo status di «grande potenza». Il trattato, che non vincolò l'Italia al rispetto delle minoranze slovena e croata, garantiva invece la tutela della minoranza italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un trasferimento di alcune migliaia di italiani da questa regione al Regno d'Italia. Clausole riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani e jugoslavi, il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre le premesse per una reciproca amicizia e collaborazione fra i due stati. Così invece non fu e ben presto la politica estera del fascismo si incamminò lungo la via dell'egemonia adriatica e del revisionismo, assumendo crescenti connotati anti-jugoslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati a espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano e trovò non pochi consensi nella popolazione italiana della Venezia Giulia. Presero corpo anche progetti di distruzione della compagine jugoslava, solo momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano-Stojadinovic del 1937, che sembrarono per breve tempo preludere all'ingresso della Jugoslavia nell'orbita italiana. Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe trasformato tali progetti in un preciso disegno di aggressione.

Nonostante la difficile situazione esistente nella Venezia Giulia, la politica degli esponenti sloveni e croati tra cui i loro rappresentanti al parlamento fu improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l'avvento del fascismo; tra l'altro, essi non aderirono all'opposizione legale quando nel 1924 essa si ritirò sull'Aventino in segno di protesta contro il delitto Matteotti. Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati della minoranza tedesca dell'Alto Adige, non diede alcun risultato, anzi, il regime fascista si impegnò a fondo, anche per via legislativa, nella snazionalizzazione di tutte le minoranze nazionali. Così nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale. Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all'interno del regno, licenziati o costretti a emigrare, posti limiti all'accesso degli sloveni al pubblico impiego, soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, decine di cooperative economiche e istituzioni finanziarie, case popolari, biblioteche, ecc. Partiti politici e stampa periodica vennero posti fuori legge, eliminata fu la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali, proibito l'uso pubblico della lingua. Le minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica e i loro rappresentanti fuoriusciti continuarono a operare tramite il Congresso delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così all'impostazione di una politica generale per la soluzione delle problematiche minoritarie.
L'impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica, nell'intento di arrivare alla «bonifica etnica» della Venezia Giulia. Così, l'italianizzazione dei toponimi sloveni o l'uso esclusivo della loro forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell'emigrazione, all'impiego di elementi sloveni nell'interno del paese e nelle colonie, all'avvio di progetti di colonizzazione agricola interna da parte di elementi italiani, ai provvedimenti economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla «superiore» civiltà italiana. A tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva assai brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie che la politica di «bonifica etnica» avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche perché l'intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime.

L'azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa cattolica, dal momento che fra gli sloveni dispersi e in esilio quadri dirigenti e intellettuali fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la coscienza nazionale, in continuità con la funzione già svolta in epoca asburgica. I provvedimenti repressivi colpirono direttamente il basso clero, oggetto di aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni vennero condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui l'alto clero si era nei decenni precedenti guadagnato da parte dei nazionalisti italiani una solida fama di austriacantismo e filo-slavismo. Tappe fondamentali dell'addomesticamento della Chiesa di confine il cui esito va inserito nell'ambito dei nuovi rapporti fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo furono la rimozione dell'arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive «romanizzatrici» del Vaticano, in conformità a quanto avveniva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità «alloglotte», come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano a offrire il minimo di occasioni di ingerenza in materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei principi cattolici che la Santa Sede riteneva minacciati dalla civiltà moderna. Questi provvedimenti comportavano in via di principio l'abolizione dell'uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in forma clandestina soprattutto in ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cristiano sociale. Tale situazione provocò gravi tensioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i nuovi vescovi dall'altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modo d'intendere il ruolo del clero, cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria nella difesa dell'identità nazionale, che appariva invece agli ordinari diocesani italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stesse di fatto collaborando con il regime a un'opera di italianizzazione che investiva ogni campo della vita sociale.

Gli anni Venti e Trenta furono per i territori annessi un periodo di crisi economica, solo tardivamente interrotta dalla politica autarchica: alle difficoltà generali segnate dalle economie europee fra le due guerre si sommarono infatti gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione dell'area danubiano-balcanica, vitale per le fortune economiche delle terre giuliane. I provvedimenti compensativi assunti dallo stato italiano non riuscirono a invertire la tendenza negativa del periodo, dal momento che le sue cause profonde vale a dire, la rottura dei legami con il retroterra sfuggivano alla capacità di intervento sia delle forze locali sia della stessa Italia. Ciò dimostrò l'assurdità delle teorie imperialiste, predilette dai nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trieste e della Venezia Giulia la base per la penetrazione italiana nell'Europa centro-orientale e balcanica, ma procurò anche blocco delle prospettive di sviluppo e, spesso, riduzione del tenore di vita, specie negli strati inferiori della società, nei quali più numerosi erano gli sloveni. Difficoltà economiche e pesantezza del clima politico favorirono fra le due guerre un robusto flusso migratorio della Venezia Giulia: le fonti non ci consentono di quantificare con precisione l'apporto sloveno a tale fenomeno, che coinvolse anche elementi italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell'ordine presumibile delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono complessivamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche e politiche, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni politiche del fascismo è ben evidente.

Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma di distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di volontà, ma per quella carenza di risorse che, in questo come in altri campi, rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica snazionalizzatrice riuscì infatti a decimare la popolazione slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere largamente gli intellettuali e i ceti borghesi e a proletarizzare la popolazione rurale, che però, nonostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra. Il risultato più duraturo raggiunto dalla politica fascista fu però quello di consolidare, agli occhi degli sloveni, l'equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Analogo atteggiamento di ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugoslavia, anche se, alla metà degli anni Trenta, l'ideologia corporativa del fascismo attirò alcuni ambienti politici cattolici. Un certo interesse per la letteratura italiana venne manifestato da parte slovena specialmente sul piano della traduzione e della promozione di opere di autori italiani, mentre assai limitata fu l'attenzione degli italiani verso la letteratura slovena, anche se vi furono alcune iniziative, specie nel campo delle traduzioni. Naturalmente, a livello di rapporti personali e di vicinato, come pure in campo culturale e artistico, continuarono a sussistere ambiti in cui la convivenza e la collaborazione erano normali, e ciò avrebbe mantenuto preziosi germi che l'antifascismo e l'aspirazione alla democrazia avrebbero sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due gruppi nazionali si approfondì e nei territori giuliani si svilupparono varie forme di resistenza contro l'oppressione fascista. In particolare la gioventù slovena di orientamento nazionalista, raccolta nell'organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a quelli britannici, decise di reagire alla violenza con la violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo che provocarono repressioni durissime. Di fronte alla durezza della repressioni fascista, le organizzazioni clandestine slovene assieme a quella dei fuoriusciti in Jugoslavia, decisero, verso la metà degli anni Trenta, di abbandonare le rivendicazioni di autonomia culturale nell'ambito dello stato italiano per porsi invece come obiettivo il distacco dall'Italia dei territori considerati etnicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza, il Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite.

Da parte sua, il Partito comunista d'Italia maturò lentamente il riconoscimento come alleato del movimento irredentista sloveno, a lungo considerato un fenomeno borghese: la svolta si ebbe solo negli anni Trenta, sotto l'influenza dell'Internazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo prevedeva il collegamento con le forze nazional-rivoluzionarie per la costituzione dei fronti popolari. Fin dal 1926 il Pcd'i riconobbe agli sloveni e ai croati residenti entro i confini d'Italia il diritto all'autodeterminazione e alla separazione dallo stato italiano, fermo restando che il criterio dell'autodecisione doveva valere anche per gli italiani. Nel 1934 poi il Pcd'i sottoscrisse assieme ai partiti comunisti della Jugoslavia e dell'Austria una apposita dichiarazione sulla soluzione della questione nazionale slovena, impegnandosi altresì in favore dell'unificazione del popolo sloveno entro uno stato proprio. L'interpretazione da dare a tali risoluzioni sarebbe risultata particolarmente controversa durante la seconda guerra mondiale, quando il movimento di liberazione sloveno si trovò nella condizione di attuare nella prassi il proprio programma irredentista. A ogni modo, il patto d'azione stipulato nel 1936 fra il Pcd'i e il movimento rivoluzionario nazionale degli sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista, mentre nella Venezia Giulia debole rimase la consistenza dell'antifascismo italiano d'impronta liberale e risorgimentale. Va comunque ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti fra il movimento nazionale sloveno clandestino e le forze antifasciste democratiche italiane in esilio (e specialmente con il movimento Giustizia e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si impegnò ad alimentare l'attività antifascista in tutta Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai croati venne riconosciuto il diritto all'autonomia e, in alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale collaborazione si interruppe quando tra gli sloveni prevalse la linea secessionista.

Periodo 1941 - 1945

Dopo l'attacco tedesco contro l'Urss la guerra in Europa, specie in quella orientale, divenne totale e diretta alla completa eliminazione degli avversari. Il diritto internazionale ed anche le più elementari norme etiche vennero in quegli anni violate dai contendenti con impressionante frequenza ed anche le terre a nord dell'Adriatico vennero coinvolte in questa spirale di violenza.
La seconda guerra mondiale scatenata dalle forze dell'Asse introdusse nei rapporti sloveno-italiani dimensioni nuove che condizionarono il futuro di tali rapporti. Se infatti per un verso l'attacco contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due popoli, nel suo insieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni. L'occupazione del 1941 rappresentò così per lo Stato italiano il culmine della sua politica di potenza, mentre gli sloveni toccarono con l'occupazione e lo smembramento il fondo di un precipizio; la fine della guerra rappresentò, per converso, per il popolo sloveno una fase trionfale, mentre la maggior parte della popolazione italiana della Venezia Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore del naufragio nazionale.

La distruzione del regno jugoslavo si accompagnò allo smembramento non solo della compagine statale jugoslava, ma anche della Slovenia in quanto realtà unitaria: la divisione del paese tra Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni di fronte alla prospettiva dell'annientamento della loro esistenza come nazione di un milione e mezzo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli invasori.
L'aggressione dell'Italia contro la Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale imperialista del fascismo, rivolta anche verso i Balcani ed il bacino danubiano. In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l'annessione di territori occupati nel corso di azioni belliche prima della stipula di un trattato di pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d'Italia. Alla popolazione della Provincia di Lubiana, di circa 350.000 abitanti, era stato garantito uno statuto di autonomia etnica e culturale; tuttavia le autorità di occupazione italiane manifestarono il fermo proposito di integrare quanto prima la regione nel sistema fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le organizzazioni a quelle omologhe italiane. L'attrazione politica, culturale ed economica dell'Italia avrebbe dovuto condurre gradualmente alla fascistizzazione ed all'italianizzazione della popolazione locale. Sulle prime l'aggressione fascista aveva previsto di poter soggiogare gli sloveni grazie ad un'asserita superiorità della civiltà italiana, perciò il regime d'occupazione inizialmente instaurato dalle autorità italiane fu piuttosto moderato.

A fonte di quello nazista, esso apparve perciò agli occhi degli sloveni un male minore, ed ottenne per questo alcune forme di collaborazione, anche se le stesse forze politiche che vi accondiscesero non lo fecero necessariamente in virtù di orientamenti filofascisti: gran parte degli sloveni confidava infatti, dopo un periodo di iniziale incertezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva il futuro del popolo sloveno a fianco della coalizione delle forze antifasciste. Fra i gruppi politici sloveni si manifestarono però due diverse vedute di fondo sulla strategia da seguire. La prima, propugnata dal Fronte di Liberazione (Of), sosteneva la necessità di avviare immediatamente la resistenza contro l'occupatore: vennero perciò formate le prime unità partigiane che condussero azioni militari contro le forze occupatrici, mentre ai piani italiani di avvicinamento culturale il movimento di liberazione rispose con il «silenzio culturale». Aderirono al Fronte di liberazione appartenenti a tutti i ceti della popolazione senza distinzione di credo politico ed ideale. L'altra opzione, maturata in seno agli esponenti delle forze liberal-conservatrici, suggeriva invece agli sloveni di prepararsi clandestinamente e gradualmente alla liberazione ed alla resa dei conti con l'occupatore alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte di liberazione che lo schieramento opposto, facente capo al governo monarchico jugoslavo in esilio a Londra, convergevano sull'obiettivo della Slovenia unita, comprendente tutti i territori considerati sloveni nel quadro di una Jugoslavia federativa.

Al crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la popolazione e gli occupatori Mussolini rispose trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressive. Il regime d'occupazione fece leva sulla violenza che si manifestò con ogni genere di proibizioni, con le misure di confino, con le deportazioni e l'internamento nei numerosi campi istituiti in Italia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars e Renicci), con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione di beni, con l'incendio di case e villaggi. Migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti. Furono concepiti pure disegni di deportazione in massa degli sloveni residenti nella provincia. La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell'offensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la Provincia di Lubiana.
Improntando la propria politica al motto «divide et impera» le autorità italiane sostennero le forze politiche slovene anticomuniste, specie d'ispirazione cattolica, le quali, paventando la rivoluzione comunista, avevano in quel momento individuato nel movimento partigiano il pericolo maggiore, e si erano rese perciò disponibili alla collaborazione. Esse avevano così creato delle formazioni di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone, organizzarono nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole con successo nella lotta antipartigiana.

La lotta di liberazione si estese ben presto dalla Provincia di Lubiana alla popolazione slovena del Litorale che aveva vissuto per un quarto di secolo entro il nesso statale italiano. Ciò riaprì la questione dell'appartenenza statale di buona parte di questo territorio e rese manifesti non solo l'assoluta inefficacia della politica del regime fascista nei confronti degli sloveni, bensì pure il fallimento generale della politica italiana sul confine orientale. Contro la popolazione slovena erano stati adottati provvedimenti di carattere preventivo sin dall'inizio della guerra: l'internamento ed il confino dei personaggi di punta, l'assegnazione dei coscritti ai battaglioni speciali, l'evacuazione della popolazione lungo il confine, le condanne alla pena capitale nel quadro del secondo processo del tribunale speciale svoltosi a Trieste.
Fra gli sloveni della Venezia Giulia la lotta di liberazione capeggiata dal Partito comunista trovò un terreno particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie le loro tradizionali istanze nazionali tese all'annessione alla Jugoslavia di tutti i territori abitati da sloveni, anche di quelli in cui si riscontrava una maggioranza italiana. Il Pcs si era così assicurato l'assoluta egemonia sul movimento di massa e grazie alla lotta armata anche l'opportunità di attuare sia la liberazione nazionale che la rivoluzione sociale. Nell'opera di repressione del movimento di liberazione le autorità italiane ricorsero ai metodi repressivi già sperimentati nella Provincia di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e la fucilazione di civili. A tal fine furono appositamente creati l'Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza e due nuovi corpi d'armata dell'esercito italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto anche sul territorio dello stato italiano.

Nei giorni successivi all'8 settembre 1943 le forze armate ed elementi dell'amministrazione civile italiana poterono lasciare i territori sloveni senza contrasto e giovandosi anche dell'aiuto della popolazione locale. Le conseguenze dell'armistizio comunque rappresentarono una svolta chiave nei rapporti sloveno-italiani. La configurazione prevalente da essi assunta sino ad allora, che vedeva gli italiani-occupatori ovvero nazione dominante e gli sloveni-occupati ovvero popolo oppresso, si fece più complessa. Sotto il profilo psicologico ed anche in termini reali la bilancia s'inclinò a favore degli sloveni. L'adesione della popolazione slovena della Venezia Giulia al movimento partigiano, le azioni delle formazioni militari e degli organismi di potere resero testimonianza della volontà di tale popolazione che questo territorio appartenesse alla Slovenia unita. Tale determinazione fu sancita nell'autunno del 1943 dai vertici del movimento sloveno e fu successivamente fatta propria anche a livello jugoslavo. Anche nella Venezia Giulia gli sloveni intervennero così in veste di attore politico; ne tennero conto entro un certo limite anche le autorità tedesche che, prendendo atto dell'assetto etnico e reale del territorio, cercarono di interporsi strumentalmente come mediatrici fra italiani e slavi.
I tedeschi comunque, per mantenere il controllo del territorio fecero ricorso all'esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane, ma anche slovene. Essi inoltre utilizzarono gli apparati amministrativi italiani ancora esistenti nei centri maggiori della regione, nonché strutture di collaborazione istituite appositamente, e, nella logica del «divide et impera», sempre strumentalmente accolsero alcune richieste slovene nel campo dell'istruzione e dell'uso della lingua, concedendo pure ad elementi sloveni limitate responsabilità amministrative. La condivisione degli obiettivi anticomunisti ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazioniste non poté però superare le reciproche diffidenze d'ordine nazionale, e ciò portò anche a scontri armati. Più ampi furono i movimenti di opposizione all'occupazione germanica tanto che i nazisti sentirono il bisogno di adibire all'eliminazione su larga scala degli antifascisti, in primo luogo sloveni e croati, ma anche italiani, una struttura specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata anche come centro di raccolta per gli ebrei da deportare nei campi di sterminio.
Particolarmente vasta fu la partecipazione al movimento di liberazione da parte della popolazione slovena, mentre quella italiana fu frenata dal timore che il movimento partigiano venisse egemonizzato dagli sloveni, le rivendicazioni nazionali dei quali non erano accettate dalla maggioranza della popolazione italiana. Influì anche negativamente l'eco degli eccidi di italiani dell'autunno del 1943 (le cosiddette «foibe istriane») nei territori istriani ove era attivo il movimento di liberazione croato, eccidi perpetrati non solo per motivi etnici e sociali, ma anche per colpire in primo luogo la locale classe dirigente, e che spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità.

Nel corso della seconda guerra mondiale i rapporti sloveno-italiani giunsero al culmine della loro conflittualità; tuttavia vennero contestualmente sviluppandosi anche forme di collaborazione su basi antifasciste, in prosecuzione di una pluridecennale unità maturata nel movimento operaio. Tale collaborazione assurse al massimo rilievo nei rapporti fra i due partiti comunisti, tra la formazioni partigiane slovene ed italiane, nei comitati di unità operaia e, fin ad un certo momento, anche fra l'Of e il Cln. Sotto il profilo generale, la collaborazione fra i movimenti di liberazione sloveno ed italiano fu stretta ed ebbe notevoli sviluppi.
Nonostante le nuove forme di collaborazione fra i due popoli, i due movimenti di liberazione si distinguevano sensibilmente per genesi, strutturazione, consistenza ed influenza e non superarono la diversità di obiettivi e di tradizioni politiche. Emersero divergenze fra le dirigenze dei due partiti comunisti come pure fra il Cln giuliano ed i vertici dell'Of, nonostante avessero stipulato alcuni importanti accordi. Nella Venezia Giulia la resistenza si rivelò un fenomeno plurinazionale piuttosto che internazionale, dal momento che entrambi i movimenti di liberazione, pur rifacendosi ai valori dell'internazionalismo, risultarono fortemente condizionati dall'esigenza di difendere i rispettivi interessi nazionali.
Il movimento di liberazione sloveno reputò di importanza centrale l'annessione alla Jugoslavia di tutti i territori in cui vi fossero insediamenti storici sloveni, ma ciò non ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazionale, bensì dato il carattere del movimento anche implicazioni inerenti agli obiettivi rivoluzionari che si era preposto. Il possesso di Trieste infatti era considerato di grande importanza, non solo per la sua posizione geo-economica rispetto alla Slovenia, ma anche per la presenza di una forte classe operaia, nonché come base sia per la difesa del mondo comunista dall'influenza occidentale sia per un'ulteriore espansione del comunismo verso Ovest, ed in particolare verso l'Italia del Nord.

Il Pci, a livello sia locale che nazionale, fino all'estate del 1944 non accettò l'idea dell'annessione alla Jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a prevalenza italiana, proponendo di rinviare la definizione del problema al dopoguerra. Più tardi invece, in una mutata situazione strategica e dopo che il Pcs ebbe assunto il controllo sia delle formazioni garibaldine che della federazione triestina del Pci, i comunisti giuliani aderirono all'impostazione dell'Of, mentre in campo nazionale la linea del Pci si fece più oscillante: le rivendicazioni jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte ma nemmeno respinte, e Togliatti propose una distinzione tattica fra annessione di Trieste alla Jugoslavia di cui non bisognava parlare ed occupazione del territorio giuliano da parte jugoslava, che andava invece favorita dai comunisti italiani. Sulla linea del Pci, oltre al sostegno sovietico alle rivendicazioni jugoslave ed al dibattito interno sugli sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Italia, influì anche l'atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone, che aveva accolto la soluzione Jugoslava in chiave internazionalista come integrazione entro uno stato socialista alle spalle del quale si ergeva l'Unione Sovietica.
Tale scelta provocò pesanti conseguenze all'interno della resistenza italiana, portando tra l'altro all'eccidio delle malghe di Porzûs, perpetrato da una formazione partigiana comunista nei confronti di partigiani osovani.
Diversa era la posizione del Cln giuliano (dal quale alla fine del 1944 uscirono i comunisti, a differenza di quanto accadde a Gorizia); esso rappresentava i sentimenti della popolazione italiana di orientamento antifascista che desiderava il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Il Cln tendeva inoltre a presentarsi agli anglo-americani come rappresentante della maggioranza della popolazione italiana, anche al fine di ottenerne l'appoggio per la definizione dei confini. Il Cln e l'Of esprimevano orientamenti in materia di confini opposti e incompatibili, perciò quando il problema della futura frontiera venne posto in primo piano, una loro collaborazione strategica divenne impossibile. Sul piano tattico le ultime possibilità di accordo in vista dell'insurrezione finale svanirono di fronte all'impossibilità di raggiungere un'intesa su chi avrebbe avuto il controllo politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi. Fu così che al termine della guerra ciascuna componente della Venezia Giulia attese i propri liberatori, la Quarta armata jugoslava e il suo nono corpo operante in Slovenia o l'Ottava armata britannica, e scorse in quelli dell'altra l'invasore.

Alla fine di aprile Cln e Unità operaia organizzarono a Trieste due insurrezioni parallele e concorrenziali, ma ad ogni modo la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia avvenne principalmente per opera delle grandi unità militari jugoslave e in parte di quelle alleate che finirono per sovrapporre le loro aree operative in maniera non concordata: il problema della transizione fra guerra e dopoguerra divenne così una questione che travalicava i rapporti fra italiani e sloveni della Venezia Giulia, come pure le relazioni fra l'Italia e la Jugoslavia, per diventare un nodo, seppur minore, della politica europea del tempo.
L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli all Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo in centinaia di esecuzioni sommarie immediate le cui vittime vennero in genere gettate nelle «foibe» e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica), creati in diverse zone della Jugoslavia.
Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.

Periodo 1945 - 1956
L'area della Venezia Giulia e delle valli del Natisone (Slavia Veneta) che vede l'incontrarsi dei popoli italiano e sloveno, era stata in passato già frammentata, mai però nella misura in cui lo fu nel primo decennio del dopoguerra. Dal maggio 1945 al settembre 1947 vi operarono infatti due amministrazioni militari anglo-americane (con sede a Trieste e Udine) e il governo militare jugoslavo. La Venezia Giulia venne divisa in due zone di occupazione: la zona A amministrata da un governo militare alleato (Gma) e la zona B amministrata da un governo militare jugoslavo (Vuja), mentre le valli del Natisone ricadevano sotto la giurisdizione del Gma con sede a Udine.
Dopo il 1945 la situazione internazionale procedette rapidamente verso la contrapposizione globale fra Est e Ovest, e anche se nei rapporti diplomatici fra le grandi potenze la nuova logica si affermò solo gradualmente, il clima di scontro fra civiltà informò assai presto gli atteggiamenti politici delle popolazioni viventi al confine tra Italia e Jugoslavia. Inoltre, mentre nel primo dopoguerra i rapporti di forza a livello europeo avevano fatto sì che la controversia di frontiera italo-jugoslava si concentrasse sul margine orientale dei territori in discussione, nel secondo dopoguerra il rovesciamento degli equilibri di potenza fra i due Stati spostò il dibattito sui bordi occidentali della regione: il nuovo confine premiò così il contributo della Jugoslavia, aggredita dall'Italia, alla vittoria alleata e realizzò buona parte delle aspettative che avevano animato la lotta degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia contro il fascismo e per l'emancipazione nazionale. Il tentativo di far coincidere limiti etnici e confini di stato si rivelò tuttavia impossibile, non solo per il prevalere delle politiche di potenza, ma per le caratteristiche stesse del popolamento nella regione Giulia e per il diverso modo d'intendere l'appartenenza nazionale dei residenti nell'area: ancora una volta quindi, com'era già avvenuto dopo il 1918 e com'è del resto tipico dell'età dei nazionalismi, il coronamento (seppur nel caso degli sloveni non integrale) delle aspirazioni nazionali di un popolo, si risolse di fatto nella penalizzazione di quelle dell'altro.
Dopo l'entrata in vigore del Trattato di pace che istituiva quale soluzione di compromesso il Territorio libero di Trieste (Tlt) le relazioni italo-jugoslave vennero assorbite nella logica della guerra fredda. Il momento culminante di tale fase si ebbe nel 1948, quando l'imminenza delle elezioni politiche italiane indusse i governi occidentali ad emanare la Nota tripartita del 20 marzo in favore della restituzione all'Italia dell'intero Tlt.
A seguito del dissidio con l'Urss del 1948 la Jugoslavia non aderì più a blocchi politico-militari e le potenze occidentali si mostrarono disposte a ripagarne la neutralità con concessioni economiche e politiche, pur rimanendo essa retta da un regime totalitario. Sempre su sollecitazione delle potenze atlantiche, vista l'includenza dei negoziati bilaterali sulla sorte del Tlt, superata la crisi originata dalla Nota bipartita dell'8 ottobre 1953, si pervenne il 5 ottobre 1954 alla stipula del Memorandum di Londra.
L'assetto imposto dal Trattato di pace e successivamente completato dal Memorandum riuscì complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia, che ottenne la maggior parte dei territori rivendicati ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese e della Zona A del mai realizzato Territorio libero di Trieste, che pur vedevano la presenza di sloveni.
Le valli del Natisone, la val Canale e la val di Resia, sebbene rivendicate dalla Jugoslavia, non costituirono oggetto di trattative.
Diversa fu la percezione di tale esito da parte delle popolazioni interessate. Mentre la maggior parte dell'opinione pubblica italiana salutò con entusiasmo il ritorno all'Italia di Trieste, che era divenuta il simbolo della lunga contesa diplomatica per il nuovo confine italo-jugoslavo, gli italiani della Venezia Giulia vissero la perdita dell'Istria come un evento traumatico, che sedimentò nella memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfazione per il recupero delle vaste aree rurali del Carso e dall'alto Isonzo, si accompagnò alla delusione per il mancato accoglimento delle storiche rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensato dall'annessione della fascia costiera del Capodistriano che vedeva una consistente presenza italiana che fornì alla Slovenia lo sbocco al mare.
A conclusione della vertenza, mentre tutta la popolazione croata della Venezia Giulia si ritrovò nella repubblica di Croazia facente parte della Federazione jugoslava, rimasero comunità slovene in Italia, nelle province di Trieste, Gorizia ed Udine, e comunità italiane in Jugoslavia, anche se all'atto della stipula del Memorandum d'intesa queste ultime erano già state falcidiate dall'esodo dai territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato di pace.

Nelle zone in cui dopo il 1947 venne ripristinata l'amministrazione italiana, il ritorno alla normalità fu ostacolato dal permanere di atteggiamenti nazionalisti, anche come conseguenza dei rancori suscitati dall'occupazione jugoslava del 1945. Il reinserimento del Goriziano nella compagine statuale italiana fu accompagnato da numerosi episodi di violenza contro gli sloveni e contro le persone favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità italiane mostrarono in genere diffidenza verso gli sloveni e, pur nel rispetto dei loro diritti individuali, non favorirono lo sviluppo nazionale della comunità slovena, e in alcuni casi promossero, anzi, tentativi di assimilazione strisciante. La divisione della vecchia provincia colpì gravemente il Goriziano, perché l'entroterra montano del bacino dell'Isonzo restò privo del suo sbocco nella pianura, e in particolare la popolazione slovena, che rimase separata dai propri connazionali. Ciò rese necessaria la costruzione da parte slovena di Nova Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei decenni seguenti venne allacciando, anche se con molte difficoltà, rapporti con il centro urbano rimasto in Italia, la cui ripresa, lenta e faticosa, si delineò appena sul finire degli anni Cinquanta.

Più precaria si rivelò la posizione degli sloveni abitanti nelle valli del Natisone e del Resiano e nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti come minoranza nazionale e rimasero quindi privi dell'insegnamento nella madre lingua e del diritto ad usarla nei rapporti con le autorità. In tali zone si registrò il rifiorire, a partire dagli ultimi anni di guerra, di forme di coscienza nazionale slovena, ma la comparsa di orientamenti politici filo-jugoslavi presso popolazioni che avevano sempre manifestato lealismo verso lo Stato italiano, venne prevalentemente giudicata da parte italiana, complice anche il clima della guerra fredda, frutto non di un'evoluzione autonoma ma di agitazione politica proveniente da oltre confine. I loro assertori furono fatti oggetto di intimidazioni e arresti, e in alcuni casi di atti di violenza, da parte di gruppi estremisti e formazioni paramilitari. Anche il clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nell'affermare il proprio ruolo di riferimento per l'identità degli sloveni della Slavia Veneta a partire dall'esercizio dei suoi compiti pastorali in lingua slovena. Vi è certo stato in tali zone un persistente ritardo da parte italiana nell'attuazione di una politica di tutela corrispondente allo spirito della Costituzione democratica. Su tale ritardo vennero a pesare l'inasprirsi della situazione internazionale e le corrispondenti contrapposizioni politiche. Da ciò derivarono pure ritardi nell'istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia avrebbe comunque consentito, secondo il disegno della Costituente, una maggiore attenzione alle regioni minoritarie.

Nelle Zone A e B della Venezia Giulia e dal 1947 del Tlt, entrambi i governi militari operarono come amministrazioni provvisorie, tuttavia differivano fra loro per alcuni aspetti sostanziali. Mentre infatti il Gma costituiva soltanto un'autorità di occupazione, la Vuja rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che rivendicava a sé l'area in questione, e ciò ne condizionò l'opera. Gli angloamericani introdussero nella Zona A ordinamenti ispirati ai principi liberal-democratici, e, pur mantenendo sempre il completo controllo militare e politico nella Zona A, cercarono sulle prime di coinvolgere nell'amministrazione civile tutte le correnti politiche. Poi però, per il diniego della componente filojugoslava e anche in virtù del peso crescente della guerra fredda che fino al 1948 trovò nell'area giuliana uno dei suoi luoghi di frizione si servirono soltanto della collaborazione delle forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma adottò comunque provvedimenti volti ad assicurare alla popolazione slovena i suoi diritti nell'uso pubblico della lingua nazionale ed in campo scolastico, cercando però nel contempo di ostacolare i rapporti della comunità slovena con la Slovenia. Inoltre, l'attivazione sia pure tardiva degli istituti di autogoverno locale, permise agli sloveni, con le libere elezioni del 1949 e 1952, di eleggere i propri rappresentanti dopo più di due decenni di esclusione dalla vita pubblica. In quegli anni fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo culturale e politico.

Fino al 1954 la priorità attribuita alla questione dell'appartenenza statuale della zona, sommandosi alle tensioni della guerra fredda, determinò una polarizzazione della lotta politica che rese più difficile l'avvio della nuova vita democratica. Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e quello filo-jugoslavo non era né esclusivamente nazionale né solo di classe o ideologico, bensì il risultato di un intreccio di tali elementi. Fino al 1947 all'interno dei due blocchi le distinzioni politiche si attenuarono e trovarono ampio spazio le pulsioni nazionaliste. Più tardi le articolazioni divennero più marcate e, anche se il peso dello sconto nazionale rimase assai forte, le componenti democratiche filo-italiane, che assunsero la guida politica della zona, badarono in genere a distinguere la loro azione da quella delle forze di estrema destra. In modo analogo si manifestarono pubblicamente anche le distinzioni ideologiche, prima offuscate, fra gli sloveni, i quali formarono gruppi e partiti ostili alle nuove autorità jugoslave. Presero corpo anche tendenze indipendentiste, che videro una certa convergenza di elementi italiani e sloveni attorno all'idea dell'entrata in vigore dello statuto definitivo del Tlt.

Oltre ai rapporti quotidiani fra la gente che viveva sullo stesso territorio e che non furono mai interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Cominform una stretta collaborazione fra gli sloveni e numerosi italiani della regione, legata soprattutto all'appartenenza di classe e cementata dalla comune esperienza della lotta partigiana, che in determinati ambienti era valsa a infrangere alcuni miti, come quello della naturale avversione fra le due etnie. La scelta in favore dell'annessione alla Jugoslavia, come stato nel quale si veniva edificando il comunismo, compiuta allora dalla maggioranza del proletariato locale di lingua italiana, soprattutto nella Zona A, fece sì che fino alla frattura tra la Jugoslavia e il Cominform (1948) a lungo si mantenesse la solidarietà fra comunisti italiani e sloveni, nonostante le crescenti divergenze sul modo d'intendere l'internazionalismo e sulla concezione del partito, oltre che su questioni chiave come quella dell'appartenenza statale della Venezia Giulia. Stretta fu pure la collaborazione fra il Pci e il Pcj (Pcs), consolidata dalla lotta comune contro l'invasore e il fascismo, nonostante la diversità di posizioni su alcune questioni. Le tensioni esplosero all'atto della risoluzione del Cominform, sostenuta dalla maggioranza dei comunisti italiani, sicché si ebbe per parecchio tempo non solo l'interruzione di ogni contatto ma anche una vera e propria ostilità tra «cominformisti» e «titini». A seguito di ciò in Jugoslavia numerosi comunisti italiani, sia fra quelli accorsi in Jugoslavia ad «edificare il socialismo», subirono il carcere, la deportazione e l'esilio. Si creò pure una frattura tra gli sloveni, essendosi schierata a favore dell'Unione Sovietica e contro la Jugoslavia anche la maggioranza degli sloveni della Zona A orientati a sinistra. Da allora per lungo tempo gli sloveni furono divisi in tre gruppi contrapposti e spesso ostili: i democratici, i «cominformisti» ed i «titini».

Nonostante la Zona B della Venezia Giulia si estendesse su una vasta area compresa tra il confine di Rapallo e la linea Morgan, l'area amministrata dalle autorità slovene registrava una vasta presenza italiana solo nella fascia costiera, mentre la popolazione dell'entroterra era in larga prevalenza slovena. Nel 1947 tale area costiera concorse, assieme al Buiese amministrato dalle autorità croate, alla formazione della Zona B del Tlt. Qui la Vuja, che aveva trasferito parte delle proprie competenze agli organi civili del potere popolare, cercò di consolidare le strutture tipiche di un regime comunista, irrispettoso del diritto delle persone. Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola amministrazione provvisoria della zona occupata, senza pregiudizio della sua destinazione statuale, cercarono di forzare l'annessione con una politica di fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell'intimidazione e della violenza.
Nel contempo, le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora egemone, vennero compromesse sia dalla nuova legislazione che dall'interruzione dei rapporti fra le due zone, mentre le tradizionali gerarchie sociali vennero rivoluzionate, anche a seguito della progressiva scomparsa della classe dirigente italiana. Si mirò inoltre ad eliminare i naturali punti di riferimento culturale delle comunità italiane: così, a ben poco valse l'attivazione di nuove istituzioni culturali come l'emittente radiofonica in lingua italiana strettamente controllate dal regime, di fronte alla progressiva espulsione degli insegnanti e dopo il 1948 al ridimensionamento del sistema scolastico in lingua italiana, nonché all'orientamento complessivo dell'insegnamento verso l'attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano con l'Italia e verso la denigrazione dell'Italia. Allo stesso modo, la persecuzione religiosa del regime assunse nei confronti del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell'identità nazionale, un'oggettiva valenza snazionalizzatrice.
Se nei comportamenti anti-italiani di parte degli attivisti locali, che ribaltavano sull'elemento italiano l'animosità per i trascorsi del fascismo istriano, è palese sin dall'immediato dopoguerra l'intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere, allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze anche autorevoli di parte jugoslava sull'esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948: questa spinse i comunisti italiani che vivevano nella zona, e che pur avevano inizialmente collaborato, anche se con crescenti riserve, con le autorità jugoslave, a schierarsi nella loro stragrande maggioranza contro il partito di Tito. Ciò condusse le autorità popolari ad abbandonare la linea della «fratellanza italo-slava», che consentiva al mantenimento nello Stato socialista jugoslavo di una componente italiana politicamente e socialmente epurata al fine di renderla conformista rispetto agli orientamenti ideologici e alla politica nazionale del regime. Da parte jugoslava, pertanto, si vide con crescente favore l'abbandono da parte degli italiani della loro terra d'origine, mentre il trattamento riservato al Gruppo nazionale italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati sulla sorte del Tlt. Alla violenza, che si manifestò nuovamente al tempo delle elezioni del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli allontanamenti forzati, si intrecciarono così provvedimenti miranti a consolidare le barriere fra Zona A e Zona B. La composizione etnica della Zona B subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa dell'immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane.
In conseguenza di tutto ciò, dal distretto di Capodistria si registrò un flusso costante, anche se numericamente limitato, di partenze e di fughe, che divenne particolarmente considerevole agli inizi degli anni Cinquanta, fino a coinvolgere l'intero gruppo nazionale italiano dopo la stipula del Memorandum di Londra, quando per gli italiani venne meno la speranza che la loro situazione potesse mutare. Infatti, nonostante gli impegni assunti con il Memorandum l'atteggiamento delle autorità nella Zona B non cambiò, mentre il medesimo atto concedeva alla popolazione la possibilità di optare per la cittadinanza italiana entro un tempo limitato. Complessivamente nel corso del dopoguerra l'esodo dai territori istriani soggetti oggi alla sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone vale a dire la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente ‹, oltre ad alcune migliaia di sloveni, che vennero ad aggiungersi alla grande massa di esuli, in larghissima maggioranza italiani (le cui stime più recenti vanno dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenienti dalle aree dell'Istria e della Dalmazia oggi appartenenti alla Croazia. Gli italiani rimasti (l'8% della popolazione complessiva) furono in maggioranza operai e contadini, specie quelli più anziani, cui si aggiunsero alcuni immigrati politici del dopoguerra ed alcuni intellettuali di sinistra.
Fra le ragioni dell'esodo vanno tenute soprattutto presenti l'oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e sociale nell'area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell'economia. L'esistenza di uno Stato nazionale italiano democratico ed attiguo ai confini, più che l'azione propagandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano, costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate ed impaurite, nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l'esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma legato pure all'interruzione coatta dei rapporti con Trieste che innescarono il timore per gli italiani dell'Istria di rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della «Cortina di ferro». In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l'impossibilità di mantenere la loro identità nazionale intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà.
In una prospettiva più ampia, l'esodo degli italiani dall'Istria si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli Stati nazionali in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell'Europa centro-orientale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovettero abbandonare uno Stato federale e fondato su di un'ideologia internazionalista, mostra come nell'ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche.
La stipula del Memorandum di Londra non risolse tutti i problemi bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei rapporti italo-sloveni e l'inizio di un'epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della cooperazione di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine del 1962 e dallo sviluppo progressivo dei rapporti culturali ed economici. Nonostante i loro contrasti, già a partire dalla stipula del Trattato di Pace, i due paesi, l'Italia e la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre più stretti, tali da rendere a partire dagli anni Sessanta tardi il loro confine il più aperto fra due Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L'apporto delle due minoranze fu a tale proposito del massimo rilievo. Tutto ciò concorse, dopo decenni di accesi contrasti, ad avviare sia pure fra temporanee ricadute, i due popoli verso una più feconda collaborazione.

thermonuke ha detto...

DA CORSERA

Silenzio generalizzato
di Claudio Magris
Le parole del presidente Napolitano potrebbero — dovrebbero, in un Paese civilmente maturo — chiudere e insieme aprire una stagione etico- politica, instaurare definitivamente una nuova coscienza nazionale comune.
Ogni parte politica tende non solo a nascondere i crimini compiuti in suo nome o comunque collegati con la sua ideologia, ma anche a rimuoverli, a ignorarli veramente, in un'orrida buona fede che è il risultato di un assiduo auto-ottundimento morale. È accaduto con le foibe e con tante altre tragedie e delittuose violenze alle frontiere orientali d'Italia; è accaduto con i crimini commessi dagli italiani contro gli slavi, anch'essi rimossi e cancellati, e l'elenco potrebbe continuare ed estendersi ad altri Stati, nazioni, forze politiche dei più vari Paesi di ieri e di oggi.
Sulle foibe, tanta sinistra — comunista e non solo comunista — ha taciuto. Le ha ignorate e ha contribuito a farle ignorare, senza ascoltare le voci — umanamente forti, ma politicamente esigue — di quella sinistra democratica, patriottica e dunque antinazionalista, che ne dava testimonianza. Tante ragioni possono spiegare questo oltraggioso silenzio e oblio, nessuna può giustificarlo, così come nessuna violenza compiuta su innocenti giustifica la ritorsione di violenze su altri innocenti. Questo vale per tutti, individui, popoli, partiti e gruppi di potere.

All'ammenda della sinistra comunista, doverosa e oggi così altamente e definitivamente proclamata, dovrebbe ora aggiungersi quella degli altri che hanno taciuto sulle foibe. Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando le foibe erano generalmente ignote agli italiani, l'Italia non era un Paese comunista, ma era governata politicamente e socialmente dai moderati. I grandi giornali erano di parte moderata; lo erano in grande prevalenza le importanti case editrici (Mondadori, Bompiani, Rizzoli, Garzanti, per citarne solo alcune); né i governi centristi né quelli di centrosinistra erano comunisti. Perché allora tutti hanno taciuto, ignorato? Perché se ne sono infischiati di quei morti delle foibe, come di tanti altri? Forse anche per crassa ignoranza, inqualificabile in classi dirigenti politiche e intellettuali. Ma forse soprattutto perché quell'argomento, allora, non serviva; quei morti assassinati non potevano venire usati — blasfemamente — come un'arma politica.
Aricordarli erano, inascoltati, pochi democratici e soprattutto partiti e gruppi di estrema destra, che li ricordavano in modo sbagliato, regressivo e oggettivamente profanatorio, per riattizzare quegli odii nazionalisti antislavi che erano stati in parte all'origine della storia conclusasi con quei crimini. Il sangue dei vinti, allora, non interessava nessuno, tranne i vinti che avevano versato il proprio, o chi, ossessionato da un dolore subito, avrebbe voluto versare quello di qualche altro, magari estraneo a quei delitti, perpetuando così la catena di violenza e vendetta.

Il presidente rappresenta tutti gli italiani. Ora speriamo dunque si possano finalmente ricordare quelle vittime — e tutte le altre, di ogni parte — senza reticenze e senza strumentalizzazioni; senza quell'orribile calcolo dei morti cui abbiamo assistito negli ultimi anni, stropicciandoci le mani per la soddisfazione di constatare talvolta che i nostri cari vilmente colpiti da mano nemica erano un po' più numerosi dei cari dei nostri nemici vilmente colpiti dalla nostra mano. Una pagina, speriamo, si chiude; col ricordo sempre vivo delle vittime e l'esecrazione sempre viva dei carnefici, d'ogni parte, ma senza la tentazione di servircene oggi per interessi di parte.

11 febbraio 2007

MAX ha detto...

DUT CÂS LIS FOIBIS NO CENTRIN NUIE CUN CE CHE AL È SUCEDÛT PRIN DAL 1943. CHESTE E JE DIFAT UNE TESI JUSTIFICAZIONISTE.
NO SI POS JUSTIFIÂ NUIE.
CIERT NO SI POS JUSTIFIÂ L'OLOCAUST CUL FAT CHE I EBREUS TE BERLIN DAL PRIN DASPÒ-VUERE A VEVIN IL TOTÂL CONTROL DE MAGJISTRADURE E UN TIERÇ DA LA AVOCADURE.
I "RAPUARTS ITALO-SLOVENS" A SON UNE ABERAZION DE REALTÂT ISTORICHE.
P.S. VÊSO SINTÛT STIJEPAN MESIĆ VUÊ DI BUINORE?
O DÎS NOME CHE CHEI INCAZÂTS A VARESSIN DI SEI I TALIANS.

MAX VERDINI