Vuê o ai viert il gjornâl e mi soi cjatât une biele sorprese: il Messaggero al è daûr a fâ une schirie di interviste par une inchieste su la lenghe furlane e vuê al è ospit pre Roman Michelot, plevan di Vilegnove: lait a lei tai coments ce che al à dit.
Te foto il grup storic di Glesie furlane: ospits dal president Fontanini cualchi mês indaûr, di çampe il dean Zuan Pieri Biasat, bonsignôr Roberto Bertossi di Vençon, pre Roman Michelot e ultin a drete pre Tonin Cjapielâr, di Muris/Ruvigne, dongje di lui o soi ancje jo.
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MERCOLEDÌ, 20 GENNAIO 2010
Pagina 17 - Cultura e spettacoli
«L’arcivescovo Mazzocato è partito bene, vedremo se sbloccherà il Messâl»
«Traduciamo i testi sacri e rieditiamo un autore che sa far pensare»
Glesie furlane: la lingua è un valore Chiesa, politica e intellettuali devono risvegliare le coscienze
NEL NOME DI BELLINA
LO STOP DELLA CEI
INCHIESTA SULLA MARILENGHE - 5
Don Romano Michelotti: «Difendere una minoranza è un diritto, non un delitto» «Per i sacerdoti è un segno di incarnazione della fede che assimila una cultura»
di MICHELE MELONI TESSITORI
Il nucleo storico di Glesie furlane: da sinistra, Biasatti, monsignor Bertossi, don Romano Michelotti e, ultimo a destra, don Antonio Cappellari (accanto a lui c’è Christian Romanini)
UDINE. «Il friulano va salvato perché è un valore riconosciuto, una ricchezza che sarebbe sciocco sciupare, un diritto non un delitto. Il compito di tutti è semmai quello di rafforzare le coscienze perché non ci deve essere vergogna a parlarlo neanche fosse una cosa degradante». A mobilitarci devono essere la politica, la cultura, la grande comunicazione e prima di tutto la Chiesa, «perché l’uso di una lingua locale è un vivido segno di incarnazione della fede che veste e assimila una cultura, una storia». Sono le parole con cui don Romano Michelotti, 63 anni, parroco nel cuore del Friuli storico, a Villanova di San Daniele, schiera nuovamente il movimento ecclesiale Glesie furlane dalla parte della tutela della marilenghe contro il rischio anche di un minimo cedimento, fosse pure un timore infondato.
- Il salvataggio della lingua friulana è un dogma irrinunciabile?
«Senz’altro sí perché mi devono dimostrare che non è un valore, un patrimonio sedimentato di cultura e di vita che dunque si può buttare via con leggerezza, per ritrovarci poi a essere niente. Non si può vivere senza radici».
– La sua parola di sacerdote implica anche altre ragioni, altre profondità?
«Non posso certo parlare come un esperto di linguistica, il mio è un punto di vista pastorale. Ma posso affermare che il mio impegno strenuo per la salvaguardia della lingua è per me come un principio di incarnazione. La religione, si sa, ricorre ai segni e ai simboli. Bene, credo che l’uso di una lingua locale ricca come la marilenghe sia uno dei segni piú vividi dell’incarnazione della fede che si veste di una cultura, prende il sapore di questa terra. In fondo è un principio enunciato dal Concilio Vaticano II quando ha invitato all’uso delle lingue dei popoli nella liturgia».
– È un impegno strettamente collegato con le politiche di tutela delle minoranze?
«Sí. Fino a prova contraria ricordo ancora che difendere una minoranza è un diritto, non un delitto. Se accettiamo che la diversità è una ricchezza e va salvaguardata, tutti dovremmo sentirci impegnati, a partire dalla Chiesa. Purtroppo invece nutro qualche riserva: a volte la nostra gerarchia difende i lontani e un po’ meno i vicini».
– A quale impegno la chiamerebbe?
«In Friuli è mancata una presa di coscienza della propria ricchezza culturale e linguistica. Ma è chiaro che un popolo minoritario può non avere grande consapevolezza se non ci sono gli intellettuali, la scuola, l’università, la politica che si mobilitano e lo sensibilizzano».
– Sul piano ecclesiale c’è stata la traduzione della Bibbia...
«Ma ora la storia del Messâl congelato dalla Cei è penosa, vuol dire che la gerarchia non ha fatto una scelta definitiva, è ancora incerta e accetta, mi pare supinamente, decisioni che sono abbastanza arbitrarie. Mi spiego: da sei anni il messale tradotto in friulano dal testo originale in latino è pronto, ma la Cei lo tiene congelato non per ragioni di carattere teologico tantomeno giuridiche o liturgiche: l’unico ostacolo è che prima deve uscire la traduzione in italiano, che tarda. È un fatto grave che non si sia lamentato questo abuso, che non si sia levata una protesta ferma da parte della nostra gerarchia. Non è scritto da alcuna parte che debba uscire prima il messale in una lingua e poi quello tradotto e già pronto in marilenghe. Su questo registro un attardarsi della Chiesa che difende la vita in ogni sua espressione, ma anche la cultura di un popolo è un patrimonio di valori che ha diritto di perpetuarsi. Però ora c’è monsignor Mazzocato che è partito bene, ha fatto un discorso positivo».
– Lei però considera il fatto che anche il Friuli sta diventando terra di immigrati che non capiranno tanta caparbietà per salvare una lingua che non capiscono?
«È una storia che ho già sentito tanti anni fa quando si andava rafforzando il processo di unificazione europea. Ma il friulano è una lingua viva, si evolve. Le lingue si modificano, il friulano nei secoli è stato contaminato dall’emigrazione di altri popoli, ha risentito dei benefici influssi di celti, slavi, longobardi, latini, è cresciuto ed evolverà ancora. I nuovi arrivati si inseriranno come è sempre avvenuto. Dico messa in friulano alla quale partecipano anche extracomunitari e pregano pure loro. Per secoli si è celebrato in latino senza che la gente capisse gran che, eppure pregava, che è ciò che conta. Dunque la contaminazione cambierà la marilenghe, ma questo fa parte di una lingua viva».
– Qualcuno però contesta i costi dell’operazione: in tempi di crisi le priorità possono essere altre?
«In passato forse c’erano piú risorse disponibili, eppure quando si trattava di insegnare il friulano qualcuno sollevava altri ostacoli. È vero che i fondi mancano, ma si può per questo disperdere un patrimonio unico e irripetibile? Si può buttare via un’identità in cambio del nulla? È chiaro che una lingua minoritaria è piú debole e ha ancora piú bisogno di essere sostenuta. Certo non si può sprecare quel poco che c’è, e mi rendo conto che ora che la Regione ha distribuito un po’ di soldi, tutti si ergono a paladini del friulano. Ma questo succede in tutte le organizzazioni dove girano risorse: qualcuno ne approfitta. Bisognerà vigilare perché nessuno sciupi i fondi assegnati».
– L’università ha rivendicato la guida del processo di salvaguardia.
«Il compito è di tutti, è una questione di sinergie. L’università, che dovrebbe detenere il primato della cultura, è un ambito senz’altro privilegiato, ma c’è davvero bisogno di tutti, dalla scuola alla politica che deve sostenere il percorso accidentato delle leggi di tutela».
– Tutti devono remare nella stessa direzione.
«Lo ripeto: l’obiettivo primario è tenere desta la coscienza di popolo. Non ci si deve vergognare di parlare friulano, non è una cosa degradante. A volte si associa la marilenghe al mondo contadino, a qualcosa di vecchio e di stantío, tanto che molti genitori, che pure lo sanno, parlano in italiano con i figli perché non sanno di essere depositari di una ricchezza. Bisogna che si riscopra la fortuna di poter alimentare il nostro vivere sociale con una lingua unica e radicata. Tutti devono concorrere a questo risveglio, anche i mass media».
– Ma un risveglio c’è già?
«È vero, c’è. Ricordo i sorrisetti di superiorità di quanti, negli anni Settanta, guardavano a chi difendeva il friulano come a chi faceva discorsi di retroguardia. Oggi, in piena globalizzazione, qualcuno ha cominciato a capire che se si elimina il locale siamo niente. Oggi si parla di cultura glocal in cui locale e globale possono coesistere».
– È una battaglia persa o si può ancora nutrire un po’ di fiducia?
«Direi che si può coltivare ancora la speranza che le buone cose non vadano disperse. In questo senso confido che il friulano sopravviva perché credo nel buon senso delle persone e degli operatori culturali. Si è fatto tanto per combattere l’estinzione del panda, davvero non riuscirei a capire se si lasciassero morire le lingue dei popoli».
– Glesie furlane non fa mistero di voler mobilitare gli intellettuali e la Chiesa. Come negli anni della ricostruzione è una chiamata a raccolta?
«Sí, anche per contrastare una certa pigrizia mentale che registro anche tra i sacerdoti, mentre un tempo erano l’intelligentia nei paesi e hanno formato coscienze e classi dirigenti».
– Il clero non fa abbastanza?
«Il friulano è impiegato solo nei momenti di festa e di folclore, ma non è di uso quotidiano, normale. Io sento che devo pregare ed entrare in chiesa carico della mia vita di ogni giorno, dunque non posso cambiare codice linguistico: pregare in friulano è parte della mia vita. La gente parla questa lingua ancora viva, ma io vedo che i nostri preti, tendenzialmente, non lo fanno. Serve un cambio di mentalità, una sorta di conversione intellettuale. Bisogna capire che questo è un valore e va difeso con tutti i mezzi».
– La marilenghe è anche una ragione di fede?
«Io non difendo la lingua con la fede, difendo la fede con la lingua: la marilenghe è un mezzo di comunicazione con la gente e con il Buon Dio. Quindi serve anche nella liturgia e può contribuire a renderla piú solenne».
– Glesie furlane cosa può fare?
«Difendiamo la lingua promuovendo incontri, convegni, pubblicazioni. Abbiamo collaborato alla traduzione della Bibbia e al lezionario festivo per il Messale; ci siamo resi disponibili a continuare a tradurre i sacramenti, ma spetta all’arcivescovo nominare una commissione e decidere. Lavoriamo anche alla riscoperta dei canti del Patriarcato di Aquileia, che con adeguamenti ritmici possono essere cantati anche oggi e restituiscono alla liturgia qualcosa di unico e di raro. E poi davanti a noi c’è sempre l’impegno a ripubblicare e a divulgare l’opera omnia di uno dei nostri esponenti piú importanti, pre Toni Bellina. Stiamo ripubblicando i suoi scritti che hanno un merito indiscusso: si può condividere, si può dissentire, ma non ci lasciano mai indifferenti. Pre Beline aveva questa qualità rara di saper fare pensare».
Dut ben. Jo ch'o difint le lenghe pe lenghe al mi sà che a si é daûr a rimovisi. Al é ben ancje chei che fasin polemichis parcé che a sussitin rispuestis.
Mandi
Non credo si tratti di sterili polemiche, ma di uno stimolo efficace atto a risvegliare il sentimento delle nostre radici. Se passare dalla lettura della Santa Messa dal latino, 'che diviars di no e an studiat', all'italiano, poteva avere un significato di apertura verso il progresso e le identità locali, rendendo la Chiesa più intellegibile anche da coloro che non hanno potuto o voluto o dovuto seguire studi classici, che ritengo sia stata una scelta azzeccata per stare al passo con i tempi, credo invece che la Messa in friulano potrebbe riaggregare le comunità. Specialmente quelle extracittadine. Ma forse non solo.
«credo invece che la Messa in friulano potrebbe riaggregare le comunità» Carlo, mi sa che tu le âs dete juste. No sai cui che mi contave che ae messe par talian la int e sta in scolte anoiade e a chê par furlan a cirivin di partecipâ.
Cun dut il rispiet, lis rispuestis di pre Roman a son avonde inteligjentis, ma lis domandis dal gjornalist a mostrin avonde ignorance e prejudizis, e a puartin pre Roman a une linie difensive: ma no si à di difindi propit nuie.
Un dai problemis principâl dal Friûl, par gno cont, al è chel di vê un sisteme massmediatic che al da une interpretasion dal Friûl simpri ignorante e provinciâl, che e derive dal sotanament inteletuâl di cui che al fâs opinion e informazion assimilant la miserie e la criminalitât culturâl di un sisteme di podê maoritari, lontan e colonizadôr.
Cun cheste interviste pre Roman nol dîs robis sbaliadis, ma lis dîs sbassantsi al nivel dal so interlocutôr, invezit forsit al jere il câs di obleâlu a tirâ sù il nivel, a cost di sledrosâi lis domandis, di rispuindi robis che no jentravin nuie cun chês domandis demenziâls o di dâi cuatri scufiots.
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