Chê altre dì o ai fat un salt te Ostarie leterarie plui fuarte de blogosfere.
Intant che o ziravi pai taulins di Contecurte e i ordenavi di bevi al ustîr, o ai viodût tun cjanton un siorut che al scriveve. Al à alçât il cjâf un lamp, mi à cjalât, no mi à dit nuie e dopo al à continuât a fâ i siei fats tornant a scrivi sul so cuadernut. A la fin, che no vevi nancje bevût dut il gno Chinotto, si è cjapât sù e al è lât.
I ai domandât al ustîr cui che al jere, ma nol à volût dîmi.
Vuê o rivi a cjase e o vierç la pueste eletroniche e ce ti cjatio? Une mail di chel siorut: al jere Frank Spada (te foto, di zovin).
Dicembar 2024
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Dicembar 2024 |||| L’EDITORIÂL. I furlans a son come la nêf / L(INT)
AUTONOMISTE. Furlans alternatîfs al mûr de indiference e de rassegnazion /
PAGJINE 2 –...
1 settimana fa
4 commenti:
Premio Letterario Interrete Shorts – edizione 2009
Dopo attenta lettura, la giuria tecnica, a suo insindacabile giudizio, ha decretato il
vincitore dell'edizione 2009 del Premio Letterario Interrete Shorts.
Vince l'edizione 2009 del Premio Letterario Interrete Shorts:
Maria Bellucci con il racconto “Fragola e cannella”.
2° classificato
Andrea Bonavicini con il racconto “La vita che ho salvato”.
3° classificato
Alessandra Cortese con il racconto “Un rifiuto”.
Gli altri finalisti sono:
Frank Spada con il racconto “Punti di vista”.
Marta Rivetti con il racconto “Il mattarello”.
Giuseppina Zupi con il racconto “Una risata felliniana”.
Rosa Cassesecon il racconto “Una telefonata impertinente”.
Francesca Bianchi con il racconto “Vento”.
Tutti i racconti premiati saranno pubblicati sul sito della rivista letteraria
Prospektiva, www.prospektiva.it, senza alcuna spesa da parte dei partecipanti
Ufficio Stampa Interrete
email: ufficiostampa@interrete.it
infoline 327.08.63.013
Fax: 0832-711761
Punti di vista di Frank Spada
Un uomo anziano, seduto a piedi fermi, doloranti per i crampi, formicola le mani sfogliando un album di fotografie e ogni tanto alza gli occhi verso la sigaretta che tiene accesa tra le dita – l’aria nella stanza vela di grigio la vetrata di una finestra che guarda verso un campanile. Un tremolio, quando l’accanito fumatore imbocca l’abitudine malsana, gli impolvera i vestiti ricamando forellini, contrassegnando l’esistere di un corpo appeso alla magrezza che incava le sue guance.
L’uomo aspira l’ennesima boccata e soffia la corposità del fumo sulle inquadrature in bianco e nero: il campanile del Castello, l’angelo confinato da un perno senza fine a ruotare ai venti della rosa, il piazzale che delimita i pendii, i giochi al sole, le penombre della sera, la sua infanzia – Udine. Un rantolio dei bronchi e fissa l’immagine ingiallita del palazzo liberty rotondo del Cinematografo Centrale, demolito per far posto ai magazzini Upim, e si ricorda di un pomeriggio fine anni ’40, quando andò per la prima volta al cinema – rannicchiato tra le braccia della madre, s’impaurì per il via vai di invisibili cadaveri da una cassapanca a una cantina. Sequenze con strepiti di tromba, lugubri frastuoni e la donna fu obbligata dai piagnistei del figlio a uscire; lasciando senza finale Arsenico e vecchi merletti. Poi la sua giovane età, ancora lacrimante di paura per le sirene e i boati, e i bagliori dei bombardamenti alle grate del rifugio sotto un ristorante, si avvoltolò con gli anni in altri turbamenti. Ma intanto, una pendola traballante al suono della carica, un canale sotterraneo, il volto ambiguo di idiozia di un certo Lorre – intravisto sbirciando tra le dita le immagini del film – furono per lui notti d’angoscia. E Cary Grant? Beh, il bambino imparerà con Hitchcock ad apprezzarne la bravura e si conforterà con Rita Hayworth che gli insegnerà a sognare da una locandina appesa in camera. Comunque, diviso dalla madre solo da un bracciolo, qualche mese dopo vide un altro film, e questa volta fino in fondo. Ambientazione ottocentesca, ufficiali cavalieri con gli alamari in ghingheri, guerre all’orizzonte fumiganti i cannoncini sulle ruote e in primo piano: fanciulle in riccioli e sguardi maliziosi in abiti da sera, o in costumati abiti alleggeriti a norma di censura, tra balli e tavoli da gioco. Il primattore? Antonio Centa, un friulano di Maniago, un rubacuori d’animo gentile che a Cinecittà spopolava recitando la bellezza del suo volto ironico di luce.
e continue tal coment seguitîf...
Poltroncine accese di velluto rosso, buio in sala e la pellicola sgranocchia i titoli di testa. Primo tempo, intervallo, e inizia la sequenza di un duello tra il protagonista e un ufficiale della guarnigione dislocata in un sobborgo dell’impero. Padrini a lato, tanti passi quanti servono a distanziare gli avversari, e il primo colpo di pistola spetta allo sfidante: un’uniforme offesa da un cavaliere pari grado, che alza la mira a petto d’uomo. L’altro, Antonio Centa, giubbetto bianco e spalline arabescate, allunga una mano verso un alberello che lo fiancheggia al sole di una giornata estiva. Stacca da un ramo una ciliegia, la mette in bocca, spolpa la delizia e sputa il nocciolo a lato confondendo l’avversario con la piega di un sorriso – la mano destra, che impugna la pistola, abbandonata lungo il fianco. Il braccio teso di chi vorrebbe colpire l’impudenza ondeggia, si raccoglie, si stende mirando ancora l’arma – Centa continua a deliziarsi, soffia in giro noccioli gonfiando e spolpando le guance, strafottente. L’avversario: offeso una seconda volta! Che senso ha sparare a uno cui non importa nulla della vita? Ognuno va per la sua strada – il resto del filmato non lasciò altre impressioni nello spettatore in pantaloni corti. La mano stretta a quella della madre e uscì dal cinema.
Pochi passi e arrivano a casa, al ristorante “Al Monte”. I primi clienti a cena, i camerieri volteggianti per i tocchi che il proprietario allunga loro sugli stinchi se non servono nei modi, le ordinazioni in volo, e suo padre lo accompagna al tavolo riservato agli ospiti importanti, nella sala decorata. Occhi fanciulleschi strabuzzati e lui vede l’ussaro ufficiale in monopetto grigio che mangia un risotto alla parmigiana! “Ma come fa a essere qui se l’ho appena lasciato là”, pensa alzando lo sguardo verso il genitore – presentazioni e Antonio Centa posa la forchetta, e lo prende in braccio. Un cameriere porta il rialzo di un cuscino, mezza porzione di risotto e lui cena per la prima volta assieme all’attore tra i sorrisi del padre che lo serve.
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Anni ’50, e un giorno l’emigrante friulano allontanatosi da Roma, prima di dirigersi a Maniago dai parenti, a Casarsa cambiò strada e arrivò a Udine. Spezzato inglese con camicia aperta e foularino, il divo entrò nel “ristorante sotto il monte” – complimenti, strette di mano, mentre un ragazzino fremeva in disparte con i pantaloni lunghi, poi la celebrità si accomodò in sala. Due austriache, habitué del ristorante, venute in città per agghindarsi alla ‘Boutique Longega’, incuriosite da quell’uomo affascinante, e riverito, chiesero informazioni ai camerieri. Un sorriso firmato sotto su due pose e l’attore indirizzò le foto di persona a un tavolo – chiacchiere in inglese, caffè, tre Corvoiser a seguire e a fine pranzo lui lo chiamò. E lungo il portico in discesa con le formelle quadrettate come il cioccolato, dove da bambino incanalava tra le fughe litri di San Pellegrino per vedere che strada prendevano le bollicine in rivoli, Antonio Centa gli mise in mano un portachiavi a ferro di cavallo – le due donne strette al fianco. Lui corse fuori; i tre arrivarono con calma. Sull’altro lato di Via Mercatovecchio, parcheggiata in mezzo alle carrozzelle del servizio pubblico, la meraviglia agli occhi: un’automobile lunga nelle code, lucente di vernice nera, targata Capitale! Interni profumati di Via Veneto, un giro della chiave e via su e giù col piede frusciando il tubo dello scarico. “La vita è una giostra, amico mio, siamo tutti a bordo e finiremo nello stesso posto, ma non pensare che ci arriverai per caso”, si era limitato a dire sorridendo al ragazzino lasciato al volante di una Studebaker Champion-Commander per strombazzare il clacson, quando lui gli aveva chiesto di portarlo con sé a Roma per fargli fare la vita dell’attore. Antonio Centa, andando via con le avvenenti carinziane, rimandò la risposta a un’altra occasione. Fu l’ultima volta che lui vide il mito della gioventù – Antonio Centa si schiantò qualche anno dopo dalle parti di Rovigo, contro un muro di nebbia.
Rincorrersi di voci. L’uomo si alza, apre la finestra: un bambino insegue i giochi sulla riva del Castello – il fumo nella stanza lascia posto a una buffata, l’aria tiepida invita a uscire. Passi strascicanti la salita e l’anziano arriva sul piazzale. Una panchina e prende fiato. L’abitudine di una sigaretta e all’improvviso un capogiro: l’angelo sul campanile vortica lo scenario naturale della piccola “Patria del Friuli”, velocissimo. L’uomo gesticola qualcosa, borbotta una piega tra le labbra, salivando. Un bambino si avvicina, chiama aiuto – non sarà che il proprietario della giostra ha deciso di passargli in corsa il testimone della storia?
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