Preseât Sindic di Udin,
vuê sul Messaggero al è un biel intervent che al fâs une propueste secont me di condividi: Gianfranco D'Aronco, Bruno Vidal e Ottorino Burelli a proponin di gjavâ il non di place Cadorna e intitulâle ai miârs di soldâts muarts (o miôr: mandâts a murî propit par cause di chest gjenerâl).
Us met chi la traduzion di un passaç dal articul, ripuartant tal prin coment dut il test.
Presât Sindic, su Cadorna a son stâts scrits libris su libris. Il so cult al è stât confermât di Mussolini tal 1924, cuant che il gjenerâl al fo promovût maressial di Italie. Al è di in chê volte che si è consolidade la venerazion dal piemontês. I ordins pai assalts mats, lis fusilazions te schene, i procès imediâts e lis decimazions a son prin di dut une sô responsabilitât.
Nissun al pense di celebrâ procès dopo muart: tant plui che la stesse comission di inchieste, istituide subit dopo Cjaurêt, finidis lis voris, lis sierà tun armaron. "Parce sepultis" sigûr: ancje Cadorna. Ma vuê si trate dome di meti finalmentri la peraule fin a un malintindiment: il continuâ di un ricognossiment a un personaç, che in pratiche tal imagjinari coletîf al ven metût sul stes plan dai inocents, che lu stes al à sacrificât.
Une des placis dal centri di Udin e je dedicade a Cadorna. O domandìn che chel non al vegni gjavât de citât, batiade une volte cul penôs titul di capitâl de vuere. Pluitost che si dedichi la place a lis vitimis, che 100.000 mil a son intassadis sot dai nestris voi a Redipulie e 25.000 a Udin.
Jo o disarès di copiâ chest post e di mandâlu al Sindic di Udin: e-mail: sindaco@comune.udine.it
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6 commenti:
Pagina 1 - Prima Pagina
«Cadorna non merita l’onore di una piazza»
Appello di tre studiosi al sindaco: dedichiamola alle vittime della Grande guerra
Udine Manifesto contro l’intitolazione al generale piemontese per i metodi usati nel conflitto
IL SERVIZIO IN CRONACA
UDINE. Con una lettera appello al sindaco Honsell, Gianfranco D’Aronco, Ottorino Burelli e Bruno Vidal chiedono che Udine cancelli il nome del generale Cadorna al quale è dedicata una piazza in centro. «Si dedichi la piazza piuttosto alle vittime, delle quali 100 mila sono ammassate sotto i nostri occhi a Redipuglia e 25 mila a Udine». Secondo gli studiosi si tratta solo di porre termine a un equivoco: il perpetuarsi del riconoscimento a un personaggio praticamente accomunato nell’immaginario collettivo agli innocenti da lui sacrificati.
SABATO, 21 MARZO 2009
Pagina 4 - Udine
«Per anni è stato venerato ma è arrivato il momento di porre fine all’equivoco»
LA STORIA DELLA CITTÀ
di GIANFRANCO D’ARONCO
OTTORINO BURELLI
BRUNO VIDAL
La lettera
GLI INNOCENTI E IL CARNEFICE
di GIANFRANCO D’ARONCO BRUNO VIDAL e OTTORINO BURELLI
Signor sindaco Honsell, trascorso un secolo dalle famose 12 battaglie dell’Isonzo, è ora che ciascuno di noi mediti – sul piano della storia e al di là di sentimentalismi e strumentalizzazioni – sulle “inutili stragi” e su coloro che ne ebbero le maggiori responsabilità.
È noto che l’effettivo comando supremo in guerra, tra il 24 maggio e Caporetto, non fu nelle mani né del re Vittorio Emanuele (battezzato più tardi “duce supremo”) né del presidente del consiglio Salandra e successivi. L’intera strategia del conflitto fu sempre in mano al generale Cadorna, sul quale l’Esecutivo non poté né volle intervenire. Quale il sistema del generale? «Io, con la mia volontà, con il mio pugno – ha detto di sé Cadorna il 7 novembre 1917 – ho creato e tenuto in mano questo organismo di esercito, di 3 milioni di uomini, fino a ieri». Nella realtà, tale metodo era quello illustrato tra gli altri alla Camera dall’onorevole Gortani, in seduta segreta il successivo 24 dicembre. Il quale denunciava testualmente «un regime di terrore» nell’esercito e uno Stato maggiore che considerava la guerra «come un mezzo per fare carriera» al prezzo di sanguinose battaglie. (L’anno prima, avendo collaborato a trasmettere a Cadorna un memoriale critico nei riguardi del Comando supremo, il deputato carnico, volontario in guerra, aveva dovuto scontare 90 giorni di arresto nel forte di Osoppo. Invece a Cesare Battisti, che alla vigilia della Strafe-Expedition aveva richiamato l’attenzione su determinati problemi, il generalissimo si era degnato di far rispondere che «il capo di S.M. dell’esercito non aveva bisogno dei consigli del tenente Battisti»).
La strategia di Cadorna, come si sa, era quella dell’attacco frontale. Già in un libretto del 1905, ripubblicato nel 1915, aveva sostenuto l’efficacia dell’attacco corpo a corpo. «È indispensabile – scriveva – mantenere viva la fede nella sua riuscita e nella efficacia della baionetta, per infonderla nei gregari e trascinarli impavidi traverso la zona tempestata dai proiettili nemici, per conquistarvi il lauro della vittoria». Le perdite umane non erano gran che importanti. Che se a guerra iniziata ci fossero state titubanze tra i soldati, avrebbe provveduto ai necessari rimedi lo stesso comandante in capo: il che fece tempestivamente con circolari riguardanti coloro che si arrendessero o scappassero. Gli ordini, più volte ribaditi, erano di questo tenore: «Deve essere certo ogni soldato che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi . Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere sarà raggiunto, prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell’ufficiale». Con lo stesso spirito – all’indomani della Strafexpedition sull’altopiano di Asiago nel maggio 1916 – Cadorna aveva ordinato al generale Lequio: «Faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali a qualunque grado appartengano». Dal canto suo l’altro generale Pecori Giraldi si era prontamente adeguato, facendo aprire il fuoco contro i nostri che stavano arrendendosi. Questo il suo ordine del giorno (luglio dello stesso anno): «I vili sono stati colpiti alle spalle dai nostri cannoni e altri vennero subito presi e fucilati nella schiena» per «l’infame contegno». Non diversamente, del resto, si comportarono i comandanti in capo dell’Intesa, a cominciare da Pétain. Ma questa non è un’attenuante.
I sistemi di Cadorna (che, appena nominato capo di stato maggiore, si era affrettato ad acquistare un pacchetto di azioni dell’Ansaldo, colossale fornitrice alle forze armate di materiale bellico) erano all’opposto di quelli avversari. Nel manuale Ludendorff si leggeva che il soldato tedesco non si sarebbe più dovuto immolare dicendo a se stesso: «Qui devo stare e qui morirò», perché gli era concessa la iniziativa di muoversi entro una profonda zona difensiva: un bagaglio teorico ben diverso dai vetusti schemi nostrani. Cadorna aveva stabilito che i turni di trincea non dovessero superare un mese, «ritenendo per esperienza essere un limite che non conviene oltrepassare». Una bella differenza con il massimo di due giorni dei tedeschi.
Anche a ciò sono imputabili i numerosi casi di indisciplina. Per esempio, in seno a un battaglione della brigata Napoli nell’ottobre 1916, vi fu un lancio di sassi contro un ufficiale. Provvedimento immediato da parte del comandante dell’XI corpo, il generale Cigliana. «Con azione energica e pronta – riferiva telegraficamente Cadorna al presidente del consiglio – di cui gli do ampia e incondizionata lode, ordinava che due soldati, estratti a sorte fra quelli maggiormente indiziati come colpevoli, venissero passati per le armi». Altri fatti analoghi presso un reggimento bersaglieri «vennero immediatamente repressi con fucilazione di sei soldati . Mentre segnalo ed approvo la giusta severità del comandante dell’XI corpo – continuava – ricordo che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli e, allorché accertamento identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte». Commento di uno storico: «La brigata Napoli aveva perso 3 mila uomini, di cui 96 ufficiali, nel giugno e nel luglio precedenti; perse altri mille 500 fra settembre e novembre; era quindi completamente stremata». Il numero dei fucilati nel 1915-1918 è praticamente impossibile da definire: che si sappia, va da un minimo di 750 in su, a parte le esecuzioni sommarie.
Per il capo di stato maggiore non era il caso di risparmiare uomini, anzi «materiale umano». Questi gli ordini di Cadorna in un telegramma del 17 ottobre 1917 al generale Capello, nell’occasione della dodicesima battaglia sull’Isonzo: occorreva «sfruttare completamente tutto il materiale umano esistente nell’armata, compresi i numerosi inabili . Nessun battaglione deve essere sciolto anche se stremato di forze». Caporetto era in vista. Responsabili del disastro tutti, a cominciare dai «reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»: tutti, fuorché il comandante in capo. Nella riunione di Peschiera del successivo 7 novembre, a colloquio con Pecori Giraldi, il generalissimo ormai destituito cercava consolazione per il disastro: »Ricordiamo soltanto che Lei e io qualche cosa in questi anni per salvare l’Italia abbiamo fatto». Peccato. E al generale Gatti: «In dieci giorni, io, l’idolo d’Italia e dell’Europa, si può dire, sono giunto al fondo della miseria... Combatto ancora contro il fato e contro gli uomini».
Qualcosa di buono lo si deve anche a Cadorna, ripete qualcuno ancora oggi. Di sicuro sono i 600 mila morti, che vanno addebitati in primis a chi volle dichiarare la guerra e poi a chi la condusse con i metodi e i risultati sopra riassunti.
I sacrifici maggiori, umani e materiali, per conquistare Trento e Trieste li sopportò il Friuli, cui toccò il non invidiabile primato di morti, feriti e orfani di guerra. Ci colpì da vicino, fra i tanti, un episodio particolarmente tragico. Nel luglio 1916 quattro alpini (tre carnici e uno di Maniago), vennero fucilati a Cercivento dopo un processo sommario «per rivolta armata», essendosi manifestati contrari a partecipare a un attacco, rivelatosi poi suicida. Esattamente un anno dopo furono tratti a sorte a Santa Maria la Longa, nella Bassa, sedici militari della brigata Catanzaro – siciliani, calabresi, lucani –: fucilati alla schiena. Reduci appena dal fronte, si erano rifiutati di ripartire per la Bainsizza.
Illustre signor Sindaco, su Cadorna sono stati scritti libri su libri. Il suo culto è stato confermato da Mussolini nel 1924, quando il generale fu promosso maresciallo d’Italia. È da allora che si è consolidata la venerazione del piemontese. Gli ordini per gli assalti folli, le fucilazioni alle spalle, i processi immediati e le decimazioni sono ascrivibili anzitutto a lui.
Nessuno pensa a celebrare processi postumi: tanto più che la stessa commissione d’inchiesta, istituita subito dopo Caporetto, terminati i lavori li rinchiuse in un armadio. “Parce sepultis” certo: anche a Cadorna. Ma oggi si tratta solo di porre finalmente termine a un equivoco: il perpetuarsi del riconoscimento a un personaggio, praticamente accomunato nell’immaginario collettivo agli innocenti, da lui stesso sacrificati.
Una delle piazze del centro di Udine è dedicata a Cadorna. Chiediamo che quel nome venga tolto dalla città, battezzata un tempo con il penoso titolo di capitale della guerra. Si dedichi la piazza piuttosto alle vittime, delle quali 100 mila sono ammassate sotto i nostri occhi a Redipuglia e 25 mila a Udine.
P.S. Al nipote di uno dei fucilati di Cercivento, che aveva chiesto al presidente della repubblica la riabilitazione “motu proprio” dello zio Gaetano S. Ortis, fu risposto negativamente, dato che a norma di legge «l’istanza deve essere presentata dall’interessato» (7.3.1992).
Ai fat mio l'apel e ai scrit al Sindic di Udin. Il me bis nono je colat tal Sabotin cence mai viodi so fi. Nessun onor, nisune placiute ai tanti omp colat par une vuere non certo volude da la int.
Daniele Martina
Par me, a meti la place ai muarts in vuere invezit che a Cadorna si va a pericul di lâ indevant cu la retoriche su la stesse linie di prime, gjavant dome un non (par cualchidun avonde vergognôs, par altris al jere un gjenerâl come chei altris, o magari ancje un tic miôr) metint un coletîf "gloriôs" e che si pues doprâ simpri in sens nazionalist talian. Invezit al sarès biel dedicâ une place ai decimâts o ai disertôrs.
soi d' acordo ancje jò cun D' Aronco, di gjiavâlu da ogni sît, stànt che chél becjâr nol merte nancje di jessi plui inomenât pai damps ca l'à fat
mandi
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