Come ogni an, ancje jo ai 27 di Zenâr o ai fevelât de
Zornade de Memorie. Al pues someâ un argoment lontan, sedi tal timp, sedi tal spazi. Ma cussì nol è. Nol covente che us torni a dî che a pôc plui di une ore di strade di cjase mê, a Triest, e je la
Risiere di San Sabba, unic cjamp di stermini nazist in Italie. Cun di plui cheste setemane sul Gazzettino e jere une pagjine interie (
par leile, fracait achì) une testemoneance direte di 2 oms di Maian, inmò in vite che a àn vivude cheste tragjedie su la lôr piel: a son Guido Riva (di Maian,
te foto a çampe) e Emilio Martinuzzi (di Sant Tomâs,
te foto a drete). Leint cheste pagjine dai 24 di Fevrâr, o ai sintût une emozion profonde e ju ringrazii par chês peraulis.
3 commenti:
Dal Gazzettino
Martedì 24 Febbraio 2009,
LA MEMORIA CHE NON MUORE
La storia di Guido Riva:
dalla miseria dell’emigrante alla tragedia dei lager
Si parla di crisi e di difficoltà a vivere la quotidianità, tra conti da pagare, lavoro in forse e problemi di disagio famigliare. Ma c’è chi, la sua esistenza, l’ha trascorsa affrontando imprevisti e traumi ben più scioccanti e che oggi continua ad andare avanti conscio che c’è di peggio. Tra loro ci sono due cittadini di Majano: Guido Valentino Riva, classe 1922, ed Emilio Martinuzzi, 83 anni, di San Tomaso. Guido arriva da una famiglia di emigranti. A raggiungere per primo la Francia era stato suo padre Pietro, seguito poi dalla madre, Daria Modesto, un anno dopo. Lui è rimasto a Majano coi nonni e il fratello per unirsi ai genitori qualche tempo dopo. «Mio padre faceva il falegname mentre mia mamma si occupava di noi ragazzi e della casa - racconta -. Vivevamo in un paesino vicino a Parigi accontentandoci di poco fino a quando è arrivata la malattia di mio papà». Pietro Riva muore nel 1934 per meningite, patologia insorta a seguito dell’aggravamento di una forte polmonite. Lascia la famiglia sola in Francia e con i conti da pagare. «Mio padre, come tutti i friulani, aveva nella testa il mattone; voleva cioè una casa sua. Prima di andarsene, infatti, aveva acquisito un terreno abbandonato e lì aveva cominciato a costruire. Quando non ha potuto più pagare l’impresario che lavorava per lui, quest’ultimo si è preso l’edificio. «Io, mio fratello e mia madre siamo dovuti andare a vivere in due stanze, in un posto estremamente modesto; non c’erano neanche i servizi igienici. Mia madre, per il dolore e la miseria, si ammalava continuamente. Lavorava come poteva, da sarta, per conto di altri. La casa sogno di mio padre, intanto, era stata venduta. Aveva un valore, ai tempi, di 30mila lire. Un po’ di soldi ce li passava l’impresario. Ero io, e a volte mio fratello, che andavamo a prendere qualcosa per tirare avanti».
Anche il Comune aiutava per i viveri che dava gratis una volta alla settimana, pure a chi era "straniero". Nel 1936 la famiglia rientra a Majano. «Avevo 14 anni - ricorda bene Guido -; potete solo immaginare cosa abbiamo trovato in paese. C’era miseria anche qui. Io sono andato a fare il garzone per un casaro. Il mio compito era di andare a vendere il siero e lo facevo per 30 centesimi al giorno. Per arrotondare mi davano i ritagli di formaggio avanzati, "strisulis", che oggi sono diventati una prelibatezza ricercata. La mattina, in latteria, si faceva il burro e si otteneva uno scarto, il "pinot". Me lo ricordo bene: lo mettevamo in piccoli barattoli. Mio fratello, invece, era andato a lavorare da contadini». Poi un altro lutto: mamma Daria muore e i due fratelli vanno a vivere con lo zio paterno. «Abbiamo imparato ad adattarci e a stare tutti assieme; tutto è stato diviso perché al tempo ogni cosa era utile: dalle padelle, alle lenzuola, ai muri delle case. In quel periodo ho cambiato lavoro e sono andato a fare l’apprendista ferro-meccanico. Poi... poi è arrivata la guerra».
Nella travagliata vita di Riva si apre un nuovo doloroso capitolo. «Il passato va ricordato, ma senza rancore», dice oggi Guido che dopo quella tragica esperienza è stato presidente della sezione locale dei combattenti e reduci, oltre che consigliere del mandamento di San Daniele. «Dopo la visita di leva fui arruolato come autiere e destinato al 4° Centro automezzi con sede a Bolzano. Ero pronto per partire per il fronte. In un primo momento la destinazione pareva la Russia, poi sembrava l’Africa». Alla fine Riva giunge a Rodi, l’isola del Dodecanneso allora presidiata da un contingente militare italo-tedesco. «Sull’isola greca c’erano circa 40mila militari italiani e 8mila tedeschi. Questi ultimi erano armati di tutto punto, con armamenti bellici nettamente superiori ai nostri». Arriva l’8 settembre del 1943 e gli amici diventano nemici. «Qualche giorno dopo, il 12 settembre, le truppe tedesche di stanza a Rodi rastrellarono tutti i militari italiani facendoli prigionieri. Alcuni cercarono scampo via mare dirigendosi verso le coste turche, ma la maggior parte dovette arrendersi e fu inviata in un campo di concentramento in Germania. Fummo imbarcati con prima destinazione Pireo, il porto di Atene allora in salda mano tedesca, non prima di essere guardati a vista per qualche giorno in un magazzino. Alla fine, il comando tedesco fu costretto a cambiare destinazione perché le strade ferrate prefisse non erano più percorribili. Fummo caricati su carrozze da bestiame: in ogni vagone nato per contenere otto cavalli ci dovevano stare 40 uomini. Il treno percorse la penisola ellenica da sud a nord e si fermò a Salonicco. La destinazione finale era sconosciuta a tutti».
Giornate interminabili. Impossibile quantificare il tempo. «Eravamo assaliti dalla febbre, dalla fame e dalla sete. L’unico refrigerio possibile consisteva nel leccare le lame metalliche della carrozza. Alla fine, stremati, arrivammo a Minsk, capitale della Bielorussia, allora in mano alle forze dell’Asse. Fui internato nel campo "Stolag 352 Gepruft", esattamente nel campo 00251, con il numero I90. Qui ci rimasi fino al primo luglio del 1944». Guido si ammala di pleurite bilaterale e per due volte viene ricoverato all’ospedale di Minsk. «Restai a lungo a contatto con altri degenti tedeschi, non sempre animati da spirito amichevole. Di quel periodo ricordo l’aver gustato, dopo tantissimo tempo, il pane bianco. Ricordo anche un soldato piemontese che era riuscito a diventare cameriere della mensa degli ufficiali; al rientro portava in baracca gli avanzi che erano di qualità nettamente migliore del solito magro pranzo».
Intanto l’Armata Rossa era riuscita nell’intento di ricacciare indietro le divisioni naziste che dovettero abbandonare il campo "Stolag 352 Gepruft" e tutti i prigionieri. Era la fine di quel periodo di privazioni? No, per Guido un altro doloroso capitolo stava per cominciare, sempre da prigioniero.
Paola Treppo
paola.treppo1@tin.it
Fame, freddo e paura tra i sovietici. Rimpatriò nel novembre del ’45, ora scrive un libro
Martedì 24 Febbraio 2009,
(pt) L’arrivo dei russi, in molti casi corrispondeva alla liberazione dei prigionieri dei tedeschi. Ma non sempre andò così. «Sembrava, in effetti, che le forze alleate liberassero le persone carcerate dai tedeschi ma per noi non mutò nulla. Cambiammo solo carcerieri - commenta Guido - i russi non fecero differenze tra tedeschi e italiani e tutti fummo internati nel campo di concentramento di Smolensk, poi in quello di Grasnogorsk, entrambi non molto distanti da Mosca». Ogni gruppo era guidato da un responsabile della stessa nazionalità che doveva sempre e comunque rispondere al comando russo. «La sistemazione era quasi peggiore di quella di Minsk: si doveva dormire sulle nude assi di legno senza neanche la paglia». Guido riesce, pur nella grande difficoltà, a guadagnarsi la fiducia dei commilitoni che gli fanno gestire le risorse di pane, zucchero e sigarette.
La comunità italiana, in quel campo, era formata da circa venti ufficiali e da un centinaio di militari. Riva migliora ancora la sua condizione svolgendo mansioni di attendente ai venti ufficiali italiani: i sovietici, infatti, fornivano a questo gruppo cibo di qualità e quantità superiore. «Ricordo il barattolo metallico dove raccoglievo tutti i rimasugli del vitto ufficiali e che poi mangiavo quando i morsi della fame si facevano sentire più forti». Si trattava di una specie di brodaglia e, talvolta, di alcune rape. «Raramente riuscii ad andare a lavorare in un kholkoz dove potei racimolare delle patate ma non potevo prenderle perché i contadini le consideravano una delle migliori merci di scambio, insieme alle carote». A Grasnogorsk il freddo era terribile. «Era secco pericoloso. Si poteva morire assiderati senza neanche rendersene conto». In quel campo, Guido conosce alcuni prigionieri italiani inquadrati nell’Armir che non riuscirono a fuggire dopo la battaglia di Nikolajewka, rimanendo così prigionieri dell’Armata Russa. «Raccontavano la famosa ritirata dell’Armir, citando spesso la tristemente nota marcia dal "Dai, vai", cioè chi poteva camminare andava avanti, chi invece restava in coda sottostava al suo triste destino». Veniva fatto prigioniero o moriva di freddo. «La guerra è guerra. Scompare l’umanità. Si diventa bestie». Guido ricorda i sovietici dell’Armata Rossa. «Si comportarono meglio con gli italiani le cui informazioni erano considerate buone». In effetti, Guido e un suo commilitone di Ragogna poterono rimpatriare l’11 novembre del 1945, ben oltre la fine della guerra. Un soldato triestino sedicente austriaco, invece, e anche un monfalconese sedicente sloveno, dovettero aspettare ancora. «Finalmente l’agognata partenza per rientrare in patria, in tradotta. Non so quanti giorni di viaggio feci ma ricordo bene che a ogni sosta del treno, da Mosca a Bolzano, tutti scendevano vicino ai campi di patate e scavavano la terra con le mani nude alla ricerca dei preziosi tuberi». Arrivati a Bolzano, i reduci vennero prima sottoposti a una specie di disinfestazione; quindi a ognuno fu consegnato un solo vestito per cui dovettero conservare ancora il cappotto e il berretto dato loro dai russi. Il trasferimento a Udine avvenne col camion con sosta pranzo a Sacile. «Là, a ogni reduce, fu corrisposta la decade di 15 lire. Dopo aver pernottato a Udine all’ospedale militare, io e l’amico di Ragogna prendendo il tram per San Daniele e da lì, per i campi, corsi a casa a Majano». Finisce un incubo, per Guido, che è di nuovo in Friuli. Ma la sua vita sarà ancora difficile. Riva lavorerà duramente nella miniera di Cave del Predil, riaccuserà i problemi di pleurite, farà l’elettricista e collaborerà con le pompe funebri della Somsi quando la società di mutuo soccorso faceva i funerali per i poveri, usando uno dei primi carri funebri con automobile "adattata". «Nel 1955 ho lavorato per due anni alla Bertoli e mi sono occupato di molte altre mansioni».
Adesso Guido è in pensione e sta scrivendo un libro sulla storia della sua vita dove ricorda anche gli amici di viaggio: Ezio Leonarduzzi, Bruno Mariutti, Eugenio Minini e Francesco Bortoluzzi. A fianco a loro pure Luigi Gaiotto, di Portogruaro, che dopo tanti anni lo ha ritrovato e con lui ha festeggiato il rientro a casa dopo il conflitto. Sposato con Elda Riva, padre di Fabiola, 87 anni da compiere nel 2009, Guido collabora con il Comune di Majano per far conoscere alla nuove generazioni il dramma della guerra. Non ha perso il suo spirito e la sua tenacia diventando un esempio di come sia possibile superare tutte le difficoltà della vita.
SIMPRI SUL GAZZETTINO, 24/02/2009
NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO
Un diciassettenne nell’inferno dei nazisti
L’ex internato Emilio Martinuzzi tornò che pesava 27 chili. Trasmette quell’esperienza agli studenti
(pt) Anche se dalla prigionia è passato tanto tempo, per Emilio Martinuzzi i ricordi sono più che vivi. E il dolore dei momenti di sofferenza continua a tormentarlo anche la notte quando si sveglia in preda agli incubi. Oggi pesa 74 chilogrammi, ma arrivò a pesarne 27. Di quello stato pietoso conserva ancora le foto ma sua moglie le ha messe via e nessuno vuole più guardarle. Emilio fu catturato durante un rastrellamento a Majano, il 19 novembre del ’44, mentre si trovava nascosto su una collina con altri cinque partigiani. «Io rimasi ferito da uno sparo alla gamba, non potei fuggire e fu fatto prigioniero da due soldati che parlavano l’italiano meglio di me - ricorda -. Per tre giorni e tre notti resta in ospedale con la gamba che si gonfia a dismisura, nella sede dell’8° Reggimento alpini di Grado. Nessuno, a parte il comandante e le suore, sapevano che ero partigiano. Rischiavo la vita. Avevo solo 17 anni. Rimasi in cura per quasi due mesi e poi, tra il 22 e il 23 febbraio del 1945 arrivò l’ordine: mi trasferivano a Flossemburg, in Alta Slesia. Mia sorella, sapendo che là faceva molto freddo, mi preparò un po’ di valigia con abiti pesanti e caldi. Ma non sapevamo cosa ci aspettava: giunti su quel piazzale vidi la neve alta e sentii il gelo. Ci fecero spogliare nudi e ci diedero da mettere i vestiti zebrati da carcerati. Lì restammo un mese e poi fummo trasferiti a Norimberga camminando dodici ore al giorno».
Altri due mesi di stenti, ma Emilio ha un po’ di fortuna. «Un tedesco coi capelli bianchi mi fissava e continuava a dirmi "tu, mio figlio, Udine" e mi dava un pezzetto di pane da mangiare ogni giorno. All’inizio ero titubante, poi accettai per non morire. Ma durò poco perché al posto di quell’uomo ne arrivò un altro, dallo sguardo cattivo». I russi stavano per arrivare e i prigionieri furono spostati. «Camminammo per giorni sotto i bombardamenti, per 350 chilometri, ma ci davamo coraggio, fino a Dachau». Lì, alle 7 del 29 aprile del 1945, i prigionieri furono liberati. «Ci lanciavano delle scatole di carne perché eravamo pelle e ossa. Io pesavo 27 chilogrammi. Ma mangiare subito e tanto non ci fece bene: moltissimi morirono. Fu così che le razioni vennero diminuite per permettere al corpo di adattarsi nuovamente all’alimentazione. Ci sono cose, di quel tempo, difficili da credere. Ho visto bambini gettati vivi nei forni crematori e le loro madri buttate nel fuoco subito dopo. Come si può arrivare a fare certe cose?». Gli occhi di Emilio si arrossano ed è difficile non commuoversi. Oggi Martinuzzi racconta la sua vita ai ragazzi delle scuole, perché capiscano e perché non si ripetano gli stessi errori. Gli stessi orrori. Rientrato in Patria, salvo, ha affrontato una vita di lavoro incessante, da emigrante: sei anni in Canada nella provincia di Alberta, sei in Svizzera, sei mesi in Belgio a Charleroi. Tre anni anche in Germania dove, conosciuta la sua condizione di ex-internato, è stato trattato con rispetto e particolare attenzione. Emilio si è costruito una famiglia che adesso è la sua gioia: vive con Adriana Pellis, originaria di Ragogna, con cui ha avuto tre figli e, da loro, sei nipoti.
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