Prime ti ignorin, dopo ti ridin, dopo ti combatin. Dopo tu tu vincis! (Gandhi)
29 marzo 2008
La insegnante di Buie
Vuê o soi stât nomenât sul gjornâl. La insegnante di Buie che no pense che il furlan nol sedi une materie cussì impuartante di insegnâ a scuele, mi clame in cause: secont jê chi i àn mancjât di rispiet.
Par jessi sincîr, se un al cjape cjarte e pene e al manifeste un pinsîr in public, dopo nol à di lamentâsi se simpri in public cualchidun i rispuint. Su la cuistion dai anonims... mah... mi somee che la insegnante e vedi voie di passâ par vitime: e à fat une altre falope, parcè che nissun anomin le à contestate stant che cui che i à dit "Vergogne" si sa cui che e je e, par di plui, jo o dîs che la ninine e à fat dome che ben.
Dut câs, tornant a la letare di vuê, che us met tal prin coment, al ven fûr cemût che la insegnante no dome e cîr di rimpinâsi sù pai spiei, ma ancje e dimostre une cierte suponence: denant des osservazions di Davide Turello e Fabian Ros no cjate nuie di miôr di fâ che spostâ la atenzion fûr dal probleme, che je stesse e à mot: ven a stâi la cuistion linguistiche parcè che o resti dal parê che une buine cognossince des lenghis, tacant di chê che tu fevelis in cjase, no fasi altri che ben pe cognossince di dutis lis lenghis.
Dit chest ancje la conclusion de letare mi à fat ridi: la mestre e dîs "O lassi a voaltris la ultime peraule parcè che jo o ai di lavorâ, e tal timp libar o preferìs dedicâmi a robis plui legris".
Ma jo mi domandi: parcè no fâlu prime invezit di scrivi sul gjornâl robis che a son pardabon fûr dal vade? Si sarès sparagnade une figure magre, anzit dôs.
Ps: se jo o met une "ciore" tal microondis, mi rive a cjase la Enpa e mi denuncie! Miôr mangjâsi un tic di popcorn o sioris e lassâ pierdi atacs dal gjenar. (o scomet che la insegnate no si rabie se i meni un tic il rost, stant che jê e dîs che e à il sens of humour).
sul Mv
RispondiEliminaSABATO, 29 MARZO 2008
Pagina 20 - Udine
FRIULANO
Le difficoltà viste da un’insegnante
Tra tutte le reazioni alla mia lettera sull’insegnamento del friulano a scuola del 5 marzo ho letto solo quelle dei signori Davide Turello e Fabiano Rosso. Innanzi tutto faccio presente al primo di essermi accorta del mio lapsus sulla pelle dei ghanesi proprio la sera in cui ho letto il giornale (ricordate la canzone “Ebony and ivory” di Stevie Wonder?); la ringrazio poi, signor Turello, per avermi detto esattamente quante Realschulen ci sono a Colonia (non sono così ignorante da pensare che in una grande città esista un solo edificio per ogni indirizzo scolastico), mi riferivo alla tipologia scolastica basandomi sulle informazioni datemi da un allievo trasferitosi da Colonia a Udine.
Signor Rosso, dall’alto della mia cattedra e con tutta la supponenza che lei mi attribuisce mi permetto di farle notare che non ho parlato di risultati scolastici al termine della scuola superiore, dal momento che insegno alle scuole medie, ho solo accennato al fatto che il passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado è difficile, che noi insegnanti di lingue straniere alle prese con 5-9 classi dobbiamo verificare e consolidare (o chiedere che i colleghi di italiano le consolidino il più possibile) le conoscenze di analisi logica degli allievi, spesso molto scarse. L’ipotesi che le materie scolastiche vengano insegnate in friulano, o marilenghe, mi fa intravedere grandi difficoltà sia per gli insegnanti sia per gli allievi, per avere quali risultati?
Evidentemente sono stata travisata, non intendo mancare di rispetto né alle lingue né ai popoli, vedo quanto voi friulani siate attaccati alla vostra lingua, pertanto vi auguro che i ragazzi di oggi, vostri figli e nipoti, in una conversazione casalinga non si permettano di cambiare registro linguistico.
A proposito, se li invitate a merenda, dite loro “Vustu i pop corn scjaldats tal microonde” oppure “Vustu las ciores tal ondepiciules?”
Scherzi a parte (le persone “presuntuose e arroganti” come me apprezzano lo humour) ho sentito da diversi “indigeni” perplessità su come inserire nella lingua friulana termini tecnici.
Quindi, signor Rosso, finisco di estenuarla dicendole che il timore di essere inadeguata con il dialetto come madrelingua che avevo al momento di varcare la soglia della scuola elementare esisteva anche nel Friuli degli anni 70 e 80, tant’è vero che alcuni miei parenti residenti in Carnia mi hanno riferito che allora la lingua utilizzata prevalentemente a scuola era l’italiano. Essi, da friulanofoni non friulanisti, definiscono una “mania” tutta questa difesa del friulano, con tanto di dizionari, che forse risulterà più controproducente che altro.
Comunque, signor Rosso, se i suoi figli si rifiuteranno di risponderle nella lingua che impone lei, applichi pure in casa sua la sua moderna pedagogia a base di ceffoni, fondamentalmente sono grata a mio padre per non aver reagito come vorrebbe lei!
Cercando di lasciare stare la polemica dura e pura a favore di un invito al dialogo, ribadisco che nel mio intervento non intendevo prendermela con il friulano in quanto tale. Le reazioni principali alla mia lettera le ho lette sul blog del signor Romanini, mi farebbe piacere sentire anche l’opinione di altri insegnanti, soprattutto di lingue comunitarie e di italiano: forse qualcuno condivide il dato di fatto, timore per alcuni, che gli allievi facciano interferenze nell’apprendimento delle varie lingue, come spesso si verifica fra inglese e tedesco...
Chiedo al signor Romanini se ospitando sul suo blog “Une vos zovine, libare - un spazi par fevelâ di ce che al sucêt a Maian e dulintor? - su chest blog no si tolere la intolerance: prin di dut rispiet pe dignitât di ducj!” interventi non firmati di persone che mi dicono “Vergogna!” gli pare di aver rispettato pienamente la mia dignità.
Lascio a voi l’ultima parola perché devo lavorare, e nel tempo libero preferisco dedicarmi a cose più amene.
Luisa Rivoira
La Rivoira cheste volte e je plui prudente (e à di vê cjapât pôre) ma il so discors nol à ni cjâf ni cjaveç e la vergogne e reste dute sô: a restin buinis ancjemò lis letaris di Davide Turello e Fabian Ros, alore ancje jo no piert timp. O zonti dome une robe: la vergogne plui gruesse e je dal Messaggero Veneto che nol piert mai la ocasion di publicâ letaris cence costrut, baste che a sedin cuintri dal furlan: cheste volte magari par dirit di repliche, ma la prime, e tantis altris voltis, dome par invelegnâ la int.
RispondiEliminaNuie di fâ: un graciis a chei pôcs (e tra chei ancje Christian) che in Friûl a cirin di fâ informazion e no disinformazion.
grazie a ti sandri!
RispondiEliminao ai vût bogns metris e tu tra chei! ;-)
O soi ancje jo super dacordo cun Sandri, ma secont me cumò al è mior finile di faie publicitât a che siore, che no spetave atri. Lasinle cun lis sos convinzions, e noaltris lin indevant cun lis nestris.
RispondiEliminama siore maestreee!
RispondiEliminavide ommare quant ebbellooo!
RispondiEliminaMi chiamo Paolo Pittino, sono un insegnante di matematica e scienze nella scuola media: una qualsiasi storia fatta di chilometri, precariato, corsi e ricorsi, e tanta passione per l’insegnamento. Scrivo, tra il serio e il faceto, a proposito degli articoli sul friulano a scuola, a firma della collega Luisa Rivoira apparsi nei giorni scorsi sul Messaggero Veneto, e degli aspri commenti che ne sono seguiti, sia sul giornale sia su questo blog.
RispondiEliminaInnanzitutto ringrazio chi mi ha spiegato che l’avorio è bianco: anch’io credevo … (è una battuta, meglio scriverlo, non si sa mai). Mi permetto di intervenire sull’argomento (il friulano, non l’avorio), con una citazione (il serio) e una storiella scherzosa che scrissi qualche anno fa (il faceto).
La citazione, in realtà, consiste in un riferimento, un “link” come si dice oggi, che non posso riportare interamente per ovvie ragioni, dal momento che si tratta di un libro che mi è capitato recentemente tra le mani: “Storia di altre storie”, di Francesco Guccini e Vincenzo Cerami, edizioni Piemme, 2001; un testo che mi è molto piaciuto e che consiglio di leggere a tutti. Tra le varie questioni trattate dagli autori, c’è un interessante e simpatico accenno al nostro idioma, da pag. 118 a pag. 121, dove, tra le altre cose, Cerami sostiene: “Quando bisogna insegnare il dialetto a qualcuno se ne sta sancendo la morte.”; e pure: “I dialetti si nutrono quotidianamente delle parole che si inventano, dal vivere comune e dagli oggetti che si toccano tutti i giorni.”; ancora: ”Nel momento in cui lo impari come a scuola diventa come il latino, come il greco, una cosa museale…”; inoltre: “Nel momento in cui lanci l’allarme per salvare un linguaggio, stai già attestando la sua scomparsa, e la sua inutilità. Non salvi il dialetto obbligando i ragazzini a parlarlo, e a quel punto è meglio che imparino l’inglese.”. Si obietterà che il friulano non è un dialetto, bensì una lingua, ma tant’è. Inoltre, è chiaro che nessuno ha la verità in tasca, nemmeno Cerami, credo; comunque sia, a mio avviso, ciò che egli scrive merita qualche riflessione.
La storiella, invece, consiste in un pezzo ironico, intitolato “Jenfre clanfùtis”; non dico quando, dove, come e perché ho scritto questa cosa bizzarra e scherzosa, così non faccio indignare qualcuno in particolare, bensì molti in generale (anche questa è una battuta, naturalmente!).
JENFRE CLANFÙTIS
La “Universal Friaulian Association” di Los Angeles e il “Center of Development and Learning of Friaulian Language” di Chicago (rispettivamente: la “Asociasiòn Universâl Furlane” di I Agnui e il “Centri dal Svilùp de Lenghe Furlane” di … miôr no dilu) hanno commissionato una ricerca ad uno specialista olandese di fama mondiale, della “Free Fraiulian University” dell’Aia (“Libare Universitât Furlane” dal Gjalinâr), sulla scomparsa del friulano e sull’affermazione del “Friulano” (maiuscolo e tra virgolette), come lingua emergente e idioma di possibile utilizzo a livello planetario, per scambi commerciali e non solo.
Gli istituti universitari italiani afferenti alle discipline linguistiche intendono aderire a tale ricerca, pertanto propongono un semplice questionario da somministrare in ambiti scolastici, lavorativi, parentali, sportivi, bocciofili e via dicendo, ad un campione di almeno 100 persone, in occasione delle festività pasquali.
Il questionario è composto da un’unica domanda: “Come si traduce in “Friulano” la locuzione “FRA PARENTESI?”. La raccolta dei dati implica un’attenta osservazione delle possibili risposte fornite dall’interlocutore, che sono elencate di seguito:
• “A si tradûs cun JENFRE CLANFÙTIS”, in tal caso assegnare 1 punto alla risposta.
• “No savares propit”, in questo caso informare sulla corretta dicitura della risposta esatta, che consiste, appunto, in JENFRE CLANFÙTIS.
È quindi necessario prendere nota dell’espressione facciale del soggetto e di eventuali commenti. Si analizzano i seguenti possibili casi:
• Il soggetto assume un’aria sorpresa e pronuncia una frase del tipo “Tu as resòn, no mi ricuardavi di chést lèmi”, in questo caso assegnare ugualmente 1 punto alla risposta.
• Il soggetto presenta una faccia incredula e manifesta la propria contrarietà pronunciando frasi del tipo “No stà dî monàdis, a si dîs TRA PARENTESI, e vònde!”, in questo caso assegnare 0 punti alla risposta.
• Il soggetto vi ride in faccia ed esprime la propria disapprovazione con frasi ironiche o addirittura scurrili del tipo “Ma va …”, oppure “No stà rompimi …” e via dicendo, in questo caso non insistere, allontanarsi rapidamente ed assegnare 0 punti alla risposta.
Una volta proposto il questionario al campione di 100 individui, si passa all’analisi statistica dei risultati, secondo la casistica seguente:
• Più di 10 punti su 100: un risultato di tal misura è confortante, si può affermare con una certa sicurezza che in pochi anni si realizzerà la scomparsa definitiva del friulano, con la netta affermazione del “Friulano” come lingua internazionale.
• Punteggio compreso tra 5 e 10: è da ritenere, in questo caso, che saranno necessari alcuni anni affinché tale passaggio si porti a compimento, nel frattempo sono auspicabili maggiori finanziamenti alla legge sulle lingue minoritarie ed il raggiungimento delle 40 ore settimanali di cultura e lingua friulane (anzi: “Friulane”) nelle scuole di ogni ordine e grado.
• Punteggio compreso tra 1 e 5: in questo caso ci vorrà molto tempo per il realizzarsi della trasformazione linguistica di cui sopra, forse parecchi decenni, saranno necessari dunque provvedimenti incisivi volti al rafforzamento della lingua “Friulana”, quali: potenziamento delle reti televisive e radiofoniche in Lingua, punizioni pecuniarie e/o corporali a chi non la parla o, peggio, preferisce l’italiano, chiusura delle frontiere agli stranieri qualora non padroneggino tale idioma, realizzazione di nuovi campanili indistruttibili, al titanio, per ogni comune e frazione, che annuncino l’ora con dei messaggi vocali automatizzati, ovviamente in “Friulano”.
• Punteggio inferiore o uguale a 1: trovandosi in quest’ultima eventualità, sarà meglio dormirci sopra, almeno fino a quando a qualcuno non verrà in mente che sarà giunto il momento di inventare … l’”Italiano”.
I ricercatori dei due istituti statunitensi e degli istituti linguistici nostrani indirizzano unanimemente il loro ringraziamento al Prof. Paul von Pyttin, consulente emerito, in qualità di coordinatore della ricerca testè illustrata, il quale porge i migliori auguri di buona Pasqua a tutti.
Concludo il mio intervento ricordando, tanto per dire, che nel mio paese d’origine, Paluzza, il termine friulano (in questo caso carnico, o meglio di Paluzza, o ancora meglio della mia borgata, o addirittura della mia famiglia) “ciores” indica certamente i corvi di montagna, ma anche i pop corn. In ogni caso, la cosa non mi preoccupa, era giusto per non scomodare gli animalisti e, naturalmente, i cultori del Friulano, dal momento che il modernissimo dizionario bilingue pare non contemplare questo significato per il suddetto lemma, proponendo piuttosto “sioris”, che dalle mie parti sarebbero semplicemente delle signore, e che, ovviamente, non è il caso di infilare nel microonde. O no?
Non voglio aggiungere altro, lascio agli appassionati “spezzettatori di articoli e post vari” il compito di incollerirsi ulteriormente e “massacrare” anche questo, a suon di asini che ridono (mah!), oppure, forse più saggiamente, di farci sopra una bella risata. Preferisco piuttosto munirmi di iPod, col sottofondo di “Long As I Can See The Light” dei Creedence Clearwater Revival, o un pezzo di De Andrè o dei Povolâr Ensemble, e farmi una bella corsa, con questo tempo piovigginoso e malinconico.
Ah, dimenticavo, un affettuoso saluto alla mia cara moglie “occitana”: mandi Luisa.
O ringrazii Pauli, o Paolo o Paul pal so contribût. E massime par vê segnalât une biele sielte di musiche.
RispondiEliminaDut câs o viôt che lis argomentazions ripuartadis a restin di un nivel che za o vevin cognossût grazie a la sô siore (no tal sens di çore, ma tal sens di femine: miôr specificâ par evitâ un altri atac di "sustite" di cualchidun).
SUL MV DAI 07/04/2008
RispondiEliminaSono sempre tesori anche se per pochi
Leggendo la lettera della signora Luisa Rivoira del 5 marzo scorso non abbiamo potuto fare a meno di provare un senso di compassione verso la signora che evidentemente non ha mai sentito parlare di Whorf e non si è mai resa conto che una lingua non è solo un insieme di vocaboli che possiamo mettere in fila in una lingua piuttosto che in un’altra, ma è uno strumento del pensiero per comprendere e descrivere e comunicare il mondo: come non commuoversi pensando che gli inuit hanno decine di vocaboli per descrivere la neve e il ghiaccio connotandoli per la loro lucentezza, resistenza, spessore, umidità...? Differenze che loro hanno appreso usando questi vocaboli fin dall’infanzia. Certo gli inuit sono pochi, anche a rischio di estinzione considerato il numero di suicidi, però... Noi siamo una coppia, una slovena di Trieste e un occitano della Val Varaita. Ai nostri figli parliamo lo sloveno e l’occitano: l’italiano è la lingua usata con amici e conoscenti che non parlano le nostre lingue d’origine. Tutti e tre i ragazzi si esprimono in un italiano ricco, articolato, con coordinate e subordinate, usano il congiuntivo e il condizionale... allora ci viene da dire che non è il fatto di parlare l’italiano tout court, anche quando non è la lingua “del cuore”, che permette ai ragazzi di diventare dei buoni parlanti della lingua italiana. Infatti, come affermano recenti studi psicolinguistici, ciascuno sviluppa delle competenze linguistiche e grammaticali nella propria lingua materna e poi le riutilizza per apprendere altre lingue. E dunque come non rabbrividire quando si sente in certe scuole consigliare ai genitori marocchini o cinesi o romeni di parlare italiano in casa: quale italiano possono insegnare queste persone ai loro figli (ovviamente fatte le debite eccezioni) e quante espressioni, ragionamenti, riflessioni saranno impoverite perché dette in un italiano incerto a scapito di una lingua d’origine che è anche una cultura, un modo di pensare e ragionare? Una prima riflessione: lo sloveno e l’occitano sono lingue parlate da pochi milioni di persone, tuttavia finché abbiamo abitato a Trieste la frequenza di istituzioni in cui si parlava sloveno ha fatto sì che l’apprendimento di questa lingua uscisse dalla cerchia strettamente familiare della comunicazione quotidiana. Ora abitiamo nelle valli occitane e in sloveno ci arrabbiamo, ci riconciliamo, prepariamo lo zaino per la scuola, ma bisogna sforzarsi per trovare le occasioni per parlare di storia, geografia, scienze... con grave danno per il vocabolario che i ragazzi padroneggiano attivamente. L’occitano a scuola è introdotto in misura minore, anche qui c’è chi pensa che si perde tempo a insegnare una lingua che ben che vada serve per parlare con quelli di là dal monte (in realtà in tutta la Francia meridionale e fino in Spagna, in Catalonia, si trovano parlanti). Eppure noi continuiamo, pensando che se parliamo l’una lo sloveno l’altro l’occitano, diamo ai nostri figli qualcosa in più di noi, delle nostre storie, dei nostri antenati e soprattutto della nostra idea della vita. Quei modi di dire, quelle espressioni, quel contatto immediato con la gente del paese, che la lingua italiana usata come veicolare non può trasmettere e che immaginiamo la signora Rivoira abbia perso. Tornando alla sua collocazione in terra “straniera” noi siamo convinti che “non fa male” apprendere le lingue del luogo in cui si vive, anche se non sono le nostre, perché aprono alla cultura e alla storia del luogo, aprono ai rapporti veri con le persone. E che c’è sempre tempo per apprendere una lingua quando serve da un punto di vista utilitaristico. Essere allenati a passare da una lingua all’altra è un’ottima palestra per prepararsi. Tanto per sgombrare il campo da eventuali equivoci, la slovena di Trieste è stata docente di lingua inglese, ha effettuato diversi soggiorni in Canada, Inghilterra, Irlanda, ha appreso il portoghese (brasiliano) in occasione di un soggiorno di due mesi in Brasile vivendo assieme a brasiliani senza traduttori, ha una conoscenza sufficiente del croato e del serbo apprese con i parenti materni. L’occitano della famiglia parla correntemente francese e anche un po’ di inglese. E assicuriamo che le nostre lingue di origine non ci hanno creato ostacoli e che in italiano siamo riusciti anche a pubblicare numerosi libri.
Leda Zocchi Fredo Valla Ostana (Cuneo)